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Franco Polizzi » Vittorio Sgarbi
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Sembrava, Polizzi, strettamente cresciuto nell’orto di Piero Guccione, accentuandone talora gli aromi come una pianta ben nutrita. Sembrava che quella armonia continua e sommessa si fosse riprodotta in lui come per fecondazione spontanea. Sembrava, e non era. Perché Polizzi, intanto, insoddisfatto di quella estatica misura, di quel misticismo naturalistico, di quell’ansia sublime, desiderava contaminarsi, scontrarsi con la realtà, scendere dal cielo non alle sabbie purissime e al mare, come nei laghi incantati di Tindari, ma sulle case, sulle architetture urbane, sui divani a strisce, sui mobili dentro case.

Oggetti d’ingombro che soffocassero lo spazio, non lasciandolo libero, infinito, musicale così come a Guccione era venuto da Friedrich: dal gelo al vento caldo, dalla luce di cristallo al dolce azzurro di Sicilia.

Polizzi voleva sentirsi romano, cittadino, colpevole. E così i suoi quadri si sono, di mese in mese popolati, lo spazio si è frantumato, diviso; e lo stesso formato delle tele volta a volta adeguato al mutamento della visione.

Grandi tele per notturni accesi da falci di luna, stelle alonanti, lampi sopra dune e colline; grande tela verticale per un forno bianco, un’architettura povera ma simmetrica e solenne come un altare, calda del fuoco sulla pietra e vibrante di una materia gessosa, spessa; ritagliata in una porta-finestra su un terrazzo: e qui la grande quantità di azzurro luce e in rapporto con lo spazio, non è quantità metafisica, ma fisica. È lo sguincio della porta, la tettoia di paglia, il tavolo si organizzano in rapporto con il cielo con un ritmo quasi astratto. È il segno d’intelligenza compositiva.

Ma c’è in Polizzi soprattutto il sentimento del tempo, la coscienza dell’ora: questo è il momento che egli vede, questa l’atmosfera; la situazione, questa, non altra e non eterna.

C’eravamo accorti fin dai suoi esordi della variante bonnardiana che Polizzi innesta sulla contemplazione della natura di Guccione. È un quotidiano magico, un incanto delle cose, anche nella loro impurità: così una finestra, un muro. Polizzi ama la varietà, l’ingombro, il moltiplicarsi delle cose, il pullulare di forme e atmosfere. Proprio come le sentiamo vibrare, all’unisono con le nostre emozioni in Bonnard; ma anche in questo così intenso rapporto non si può esaurire

la singolarità della sua ricerca.
Di quadro in quadro Polizzi cerca la via di

fuga, rinnega la condizione lirica primaria, insegue con inquietudine temi nuovi; non teme neppure il confronto con Guttuso nel più semplice tema dei limoni contro un fondo rosso. La sua pittura è corposa, densa, si arricchisce di colori intensi e caldi.

Scicli, il luogo di lavoro comune, è l’Arcadia, ma Polizzi corre con un ritmo più accelerato, sente i rumori delle strade, i silenzi impuri e corrotti dei piani alti di un palazzo di città, vede la natura artificiale che cresce sulle terrazze. Ma anche qui sente armonia e verità, anche qui trova un ordine e una non compromessa misura estetica.

Polizzi cerca riparo, silenzio dentro il rumore; e certo anche le sue immagini chiedono cuori semplici ed intelletti puri, ma soltanto dopo molte prove, dopo l’attraversamento della realtà quotidiana, perfino dopo un confronto con la volgarità, anche quella della sua stessa disciplina nei giovani artisti diversamente orientati.

Nel purissimo Polizzi si sentono anche queste frequentazioni, superate per una visione aristocratica della forma, privilegio dell’intelligenza.

La chiave del dramma di Polizzi è nei suoi notturni, liricissimi e persino commoventi; in essi tutto vibra e tutto si muove, dalle stelle ai riflessi della luna, alle luci puntinate sul mare, alla stessa incerta linea dell’orizzonte. E di fronte a un cielo tormentato dai lampi sentiamo il disagio, come noi stessi fossimo travolti. Un rumore lontano, come un lungo bramire, sale dal fondo il rumore feroce della città, sordo e attutito, ma implacabile.

L’estasi si corrompe, la felicità è percorsa da brividi; eppure nessun trauma è allo scoperto, nessuna lacerazione appare.

È una lenta disgregazione quella che avviene in Polizzi, il suo sfogo, la sua nuova, coltivatissima dimensione della pittura come lingua dello scontro, non solo della corrispondenza degli elementi, da cui esce nei momenti migliori un canto lirico purissimo, cresciuto sul contrasto. È un cielo o un campo cui nessun ostacolo si frappone: in queste pause Polizzi ritrova il tempo e lo spazio incorrotti della sua infanzia siciliana: ma è la memoria di chi ormai è lontano.

Perduta la dimensione del mito, anche la felicità non è che un episodio. Un falò sulle colline; la visione a perdita d’occhio, di un panorama in luoghi dove tornerà, fra breve, solo la memoria di Polizzi.

(presentazione in catalogo della mostra personale, Galleria Il Gabbiano, Roma l988)