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Franco Polizzi » Stefano Fugazza
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È un’esperienza comune rimanere sorpresi e quasi disorientati di fronte allo spettacolo inatteso con cui un raggio di sole, penetrando da una finestra, travolge improvvisamente qualche particolare di un interno, trasformandolo grazie ad una luce che impregna le cose e conferisce loro, insieme, un’assolutezza metafisica e una leggerezza irreale. Nulla, sotto l’azione del raggio, puo sottrarsi a tale irresistibile effetto, e anche le cose più umili, un piatto su un tavolo, un lembo di stoffa, la mattonella del pavimento, subiscono una metamorfosi inaudita, tanto che riflettono bagliori quasi fossero l’elmo di un guerriero, o un simulacro prezioso, rutilante d’oro dentro una cattedrale. A simili visioni (così potremmo chiamarle, perché sono depurate delle scorie del quotidiano tanto da possedere qualcosa dell’irreale suggestione dei sogni) deve essere sensibile Franco Polizzi, che difatti in vari suoi dipinti ne restituisce la sostanza splendente spesso perentoria, qualche volta più soffusa e morbida, a riflettere ore diverse del giorno, differenti gradi di concentrazione luminosa. Ma anche nelle altre sue opere, lo stupore, carico di sincera emozione, di fronte all’integrazione delle cose e della luce presiede all’ispirazione, costituendone la spinta primaria.

Nulla di nuovo, in questo: la storia della pittura è tutta percorsa da simili fremiti luministici, secondo infinite varianti, secondo approcci ora piu intellettualisticamente motivati (valga l’esempio di Piero della Francesca), ora più emotivamente intesi (valga l’esempio di Bonnard). Eppure,

Polizzi riesce a trovare accenti solo suoi, personalissimi, proprio perché dimostra una dedizione assoluta a tale tema, subordinandovi tutto il resto, a partire dal soggetto delle opere. Le donne che, con qualche apparenza metafisica, compaiono nel vano di una porta, o che si sporgono da un’altana, o i ragazzi che si riposano su di uno scoglio, circondati dal mare, e tutti i vari paesaggi, chiusi entro punti d’osservazione ristretti oppure vastissimi, aperti sulle colline, sulla campagna e sul mare, tutte, insomma, le scelte compiute dal pittore, ci riconducono ad una vocazione primaria, tanto forte da non tollerarne altre. Sottoposte a qualche inesplicabile reazione chimica, contagiate dalla sostanza del cielo, le cose fremono tutte insieme; non soltanto il mare, che a ciò viene predisposto dall’incessante movimento delle onde; non solo le ombre di un oggetto, che naturalmente riflettono le alterazioni continue della luce, ma anche le cose d’apparenza più stabile e immota, tutte colte nei loro intimi trasalimenti.

Per questo la pittura di Polizzi è dominata dal colore che, a restituirci la complessa vitalità della luce, non è mai unitario, ma si presenta con una grana ricchissima, nutrito da infinite sfumature. A volte esso ci appare quasi oltraggioso, nella sua oltranza dei gialli, dei rossi e dei blu; a volte soffuso e quasi malinconico, intiepidito da tonalità azzurrine. In qualche caso, davanti ad un controluce, lo sguardo dell’artista si dilata a dismisura, nello sforzo di accogliere tutto il potenziale visivo di un paesaggio.

Non è casuale, naturalmente, che una simile avventura artistica sia cresciuta in Sicilia, quella stessa terra che il principe di Salina contempla da una finestra della sua torre – osservatorio «pozione magica che ci viene versata» in grado – non meno che la contemplazione delle stesse – di rendere accettabile il vivere. Polizzi appare fortemente radicato dentro la tradizione, visiva e culturale, della sua isola, sulla base di un’accettazione istintiva e vitale, felice dell’immedesimazione e tanto intensa da poter ignorare le lacerazioni, quelle della storia e quelle della vita. Perchè va sottolineato con forza come le visioni di Polizzi attingono solo in prima istanza alla sfera della vista, della suggestione esteriore. Oltre all’abbandono dell’artista che si piega docilmente davanti al dispiegarsi di tanta bellezza (sia consentita la parola proibita) del mondo, c’è ben altro. Le sue visioni, proprio in quanto tali, non contengono solo paesaggi soffusi o densi di colore o figure immerse nella natura; esse ci dicono il bisogno di perdersi nello spazio, di sottrarsi ai vincoli della materia e alle inquietudini dell’esistenza, e proprio attraverso una contemplazione che inconsapevolmente scivola nella partecipazione attiva, nella totale immedesimazione.

(Franco Polizzi, I trasalimenti della luce in catalogo della mostra personale, Galleria Il Cenacolo, Piacenza 1996)