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Franco Polizzi » Stefano Crespi
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Quasi occasione imprevista cade il motivo e lo stimolo per accostare, leggere, rivedere la pittura di Franco Polizzi: soprattutto nel giro di questi anni più recenti.

Certo si prova un sentimento ammirativo per la lezione di quei critici scrittori che, sia pure nella circostanza contingente di una presentazione, consideravano un momento centrale la visita, la frequentazione dello studio del pittore. Il testo diventava un viaggio, la metafora di un viaggio, all’atelier: tra finitezza di uno spazio e la frase infinita della pittura, dagli oggetti agli emblemi, dalla rappresentazione al tempo infigurabile.

La riflessione saggistica ribadisce oggi, da diversi punti di vista, il cambiamento linguistico in atto: la fine della lingua, la caduta dell’evento, l’eclisse del simbolo. Indimenticabile l’esempio di Giovanni Testori che si recava in una chiesa sperduta del bergamasco per visitare un angelo di Lorenzo Lotto; si recava in una località svizzera del Canton Grigioni (dove per tre mesi non batte il sole) per visitare, entrare quasi nello schianto figurale del suo pittore “squinternato e sublime”, Varlin.

Provo ora un po’ di rimpianto per non aver frequentato questo pittore, per non essermi recato nel suo studio a Roma (se non a Scicli). Ci sono stati incontri, ma non quella condizione di unicità, di incontro, di dialogo con Franco Polizzi nel suo atelier: come in una sorta di pagina bianca che è uno stato di coscienza, di ascolto, anche di “incoscienza”, di avventura nascente, o di quella stessa dismisura di ciò che non è stato amato, non è stato vissuto.

Ma pure lungo gli anni ho conservato i cataloghi di Franco Polizzi. Qui, come in una periferia esonerata da simboli e colori, sentivo a maggior ragione, in modo quasi irriflesso, la fascinazione di questa pittura.

Su Franco Polizzi si ritrova una bibliografia con una ricchezza di testi, di nomi, di presentazioni. Difficile inserirsi con un accento, un varco inedito.

Davanti alle ragioni forse più segrete che si avvertono lungo questo percorso artistico, non saprei davvero evitare un suggerimento così paradigmatico e rimasto molto vivo nella mia esperienza. Negli anni dell’Università, nella preparazione in particolare della tesi di laurea, nutrivo una passione ammirativa per l’opera e la figura di Luigi Pirandello.

Avevo fatto anche un viaggio a Roma per poter incontrare il figlio Stefano, fratello del pittore Fausto Pirandello. Con una punta di paradosso, diceva di se stesso Pirandello di considerarsi non tanto uno scrittore italiano, quanto uno scrittore siciliano ed europeo.

Quello che vorrei ribadire nella pittura di Franco Polizzi è proprio un vissuto originario che sfugge a schemi, situazioni, formule storicistiche. Una pittura che sembra invece riportarsi a una continua dialettica tra un archetipo inconscio e un altrove disperante.

Ecco la continua dialettica della sua pittura: natura ed esistenza, coscienza e visione, sensualità e bellezza, colori e grecità, nebbie interiori e sogno, la luce e la notte.

A chiarire il ritratto umano ed espressivo di Franco Polizzi, valgano alcune espressioni che appaiono in qualche modo testimoniali. Negli anni d’esordio, Piero Guccione (figura per il giovane pittore di riferimento e di esemplarità) scriveva parole di augurio per uscire da una difficile condizione di crisi nel corpo delle nuove generazioni, per costruire un orizzonte di forme, di valori, per dire o tentare di dire ancora “della possibile e controversa bellezza del mondo”. Ed Enzo Siciliano parlava di un nuovo “gesto” nella pittura, ma già perseguitato da un bisogno ultimativo, dentro ogni giorno della vita come “in un fiume senza sosta, sempre identico e mai identico”.

Così si può esemplificare la cifra espressiva di questa pittura: da una parte un’evocazione di primordio, di immagine (e di immaginario) quasi in un alfabeto irrelato; dall’altra parte la consapevolezza, l’inquietudine di una continua relazione. Per il primo aspetto c’é un lungo testo di Marco Goldin in occasione della mostra nel 2001 Il gruppo di Scicli a Palazzo Sarcinelli di Conegliano. In forma di racconto, di viaggio, di prosa, Marco Goldin suggerisce come una frase destinale: il luogo e il non luogo di Scicli, tra tempo e non tempo, tra apparizione e simbolo, tra il qui dello spazio, di un lembo di esistenza e l’evento sconfinato di mare, di cielo, di silenzio, di notte, di luna, di “memoria mitica dell’aria e della luce”.

La biografia di Polizzi ci conferma poi dall’altra parte il senso vario del proprio cammino, nelle aperture, nell’intreccio inedito segnato dagli studi (a Venezia), dagli anni di Roma, dalla visita ai musei europei, dal sentimento ammirativo per l’opera di artisti come Vermeer, Corot, Bonnard, da incontri che lasciano una traccia di vissuto (Guttuso, Balthus, Botero).

Scorrendo, in modo esemplificativo, i suoi cataloghi, i temi della pittura, gli stessi titoli sembrano accondiscendere apparentemente a pure indicazioni enunciative: possono essere paesaggi iblei, piazze, campi, chiese, case, terrazze, finestre, interni, oggetti, stagioni, ore del giorno, figure. La carica tuttavia emozionale di questi temi si coniuga con un rigore mentale. Il quadro si definisce in una forma, in un ritaglio di geometria, nel tracciato di una finestra o di una porta. È una sorta di quadro nel quadro, di quadro nell’atelier, del quadro in un a priori del pittore.

Come considerazione di ordine generale, non specifico, vorrei richiamare un testo suggestivo e acuto di Ruggero Savinio (nome per altro che entra nel giro degli incontri di Franco Polizzi): un testo apparso su un numero di “Varagone”, del 1990 (la rivista fiorentina fondata da Roberto Longhi), con il titolo Preliminari.

Qui Ruggero Savinio scrive osservazioni sulla definizione formale di uno spazio, del quadro, di un’immagine: anche se in questo spazio-tempo del pittore tutto tende come a una via verso un “infinito altrove”.

Alberto Giacometti per esempio nei quadri di ritratto, tracciava un contorno come in un’icona. Quel volto femminile non era tanto un “ritratto” quanto un’ossessione interna dell’artista verso il tempo senza fine e inafferrabile dello “sguardo”.

Nelle diverse modalità i quadri di Polizzi si coniugano tra occasione ed emblema, tra istante caduco e durata, tra respiro della vita e appunto la forma come coscienza del proprio non dimorare sulla terra.

Gli stessi colori sono assunti in una nozione non empirica, ma linguistica: i gialli nell’accensione espressiva, gli azzurri dell’oltre, del cielo, del mare, i grigi dell’assenza, i neri dell’ombra, della notte.

Infine motivo di ulteriore dialettica è a volte l’apparizione della figura rispetto a una concezione terminale del tema pittorico. Ricordo, con particolare affezione, una mostra che nel 1992 ho curato a Civitanova Alta Marche, L’immagine femminile (con una scelta di testi della letteratura femminile). C’erano opere di Mafai, Fausto Pirandello, Manzù, Morlotti, Guttuso. C’era anche un quadro di Franco Polizzi sulla figura femminile, dal titolo L’affacciarsi. Indimenticabile nel tratto umano, avventuroso, la sera dell’inaugurazione, arrivò anche Polizzi con la macchina e senza prenotazione d’albergo. Nelle metafore delle solitudini, dei congedi che segnano l’iconologia del femminile, il quadro di Franco Polizzi L’affacciarsi e un altro suo quadro affascinante con la figura femminile, dal titolo L’attesa, si aprono verso l’ignoto, l’attesa, il tempo infinito. Così come nei suoi quadri di paesaggio, di cielo, la figura rimane come un’assenza, un mistero, una remota nostalgia.

Nell’arco recente della pittura di Franco Polizzi, c’é una linea complessiva di spostamento verso una percezione più vasta e misteriosa. Nell’espansione vertiginosa, mediatica dei linguaggi sulla scena della contemporaneità, qui sembra maggiormente acutizzarsi una Stimmung del colore, dell’immaginario, del lutto malinconico.

Ne possono essere esempio alcune immagini sintomatiche di quadri: Notturni, Blu notte, Stanza vuota di fine estate, Luci e ombre del mattino, un quadro di qualche anno antecedente e la chiesa di San Matteo di Scicli, e poi Notte di plenilunio con figure (che sembra ricordarci l’emanazione suggestiva e oscura di un Böcklin), L’attesa della sposa.

Riassuntivamente non si può dimenticare lo splendido Trittico della luce del 2005 esposto a Brescia nel piccolo Miglio in Castello, a cura di Marco Goldin. Dall’Alba, alla Luce del mattino, al Notturno con luna rossa c’è il pathos di un giorno cosmico nel valore epifanico dell’esistere.

Nel testo in catalogo (di Marco Di Capua che accompagna l’opera del Trittico) vengono raccolte alcune affermazioni di Franco Polizzi: il tendere quasi verso l’essenza dell’astrazione, ma in un bisogno di “cosa vista”, di immagine intera, per poi “annientarla” in una unità più inafferrabile; la dichiarazione poi di un amore per la pittura di Rothko.

Si sente in queste parole la spinta di una rimeditazione; ma l’atto della pittura in Polizzi non potrà mai arrivare all’immagine intemporale, all’icona desimbolizzata.

L’atto poetico di questa pittura si spinge certo a un connotato di exactitude: ma vi scorre una trama (irreversibile) di interferenze, attrito, struggimenti della memoria, quel senso anche torbido e ignaro della precarietà dove tuttavia tutto continua a liberare qualcosa di grande, di commovente.

Ci viene incontro un testo di Vittorio Sgarbi: una presentazione a Franco Polizzi alla Galleria Il Gabbiano di Roma nel 1987, inserita nel volume La stanza dipinta. Rispetto a un’estatica misura, Vittorio Sgarbi scrive che Polizzi ama la coscienza del tempo, dell’ora: la varietà, il moltiplicarsi delle cose, le atmosfere, le vie di fuga, i “silenzi impuri”. Con bellissima intuizione e scatto d’anacoluto, Vittorio Sgarbi scrive che Polizzi vuole sentirsi “colpevole” rispetto alle armonie eterne e incolpevoli. Nella perfezione dei linguaggi, “colpevole” è il fondo disarmante di una perdutezza che sa per esempio attraversare un notturno con una luna rossa.

Le ragioni di questa pittura più facilmente confinano e sconfinano nei correlativi poetici. Ad apertura di questo scritto per Polizzi, con naturalezza, mi sono riapparsi alcuni versi di Gesualdo Bufalino, figura di lucida, grandiosa eccentricità (in un testo poetico La notte, in I languori e le furie per le raffinate edizioni Il Girasole dirette da Angelo Scandurra a Valverde in provincia di Catania).

Accanto a queste ultime immagini della pittura di Polizzi, nell’incanto e nell’inquietudine che le contraddistinguono, mi ritorna un libro di straordinaria emozione: Blu oltremare di Raymond Carver (scrittore scomparso a 49 anni). Avevo appena visitato la mostra Magico blu alla Fondazione Beyeler di Basilea. Parlai di questo libro di Carver nelle pagine culturali di un quotidiano: ricordo che proprio da Scicli mi giunse, signorilmente, un segno di riscontro, di attenzione.
Il mare blu, il cielo blu, i gabbiani, la spiaggia bianca appaiono in una accidentalità improvvisa, imprevedibile, rifratta. Deprivato del simbolo, il blu di Carver al colore unico, allo specchio assoluto dell’amore, preferisce, nella trama confusa e indistinta dell’esistenza, la “tenerezza”.
Nei quadri di Polizzi, con quel colore che porta con sé una punta di malattia, ritroviamo la vita che appare, svanisce: la vita che è “qui” nei lievi, feriali enigmi dei giorni; la vita che si perde nella lontananza.

(Verso un cielo senza fine, presentazione al catalogo della mostra, Franco Polizzi, Galleria Dir’Arte, Modica, 2007)