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Franco Polizzi » Paolo Nifosì
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Sono venti gli oli che Franco Polizzi ha esposto a Roma alla Galleria Il Gabbiano in un’importante personale presentata in catalogo da Vittorio Sgarbi e recensita dai più importanti periodici e quotidiani italiani (vedi Renato Barilli su «L’Espresso», Paolo Levi su «L’Europeo», Duccio Trombadori su «Rinascita»). Il consenso della critica è un’ulteriore conferma del valore della sua pittura. C’è stato anche il consenso dei collezionisti, in un momento in cui si profila la fisionomia di un collezionismo che vuole essere arbitro delle sue scelte, che impone alla critica di guardare con attenzione in direzioni talvolta ignorate.

I soggetti dei dipinti sono legati a quanto Polizzi percepisce intorno a sé: paesaggi della campagna vicino Scicli dove abita in estate, ambienti visti dalla sua casa di piazza Vittorio a Roma, interni, nature morte. Se questi sono i dati narrativi, la sua ricerca tende alla bella pittura che risulta da una densa, corposa e spessa tessitura. In questo modo supera l’elemento visivo puramente impressionistico; la profondità mista all’accentuazione dei colori consente l’equilibrio tra la sensazione e lo stupore incantato di una fiaba.

Nel recensire l’opera di un artista spesso ci si preoccupa di trovare i padri putativi e per l’opera di Polizzi questi sono stati individuati in Guccione e in Bonnard, ma se ciò chiarisce il momento della formazione (avvenuta prima in Accademia a Venezia, poi solitariamente in Sicilia vicino a Guccione, Sarnari, Alvarez, Candiano) non motiva appieno la sua pittura attuale per la quale ha cercato i compagni di viaggio tra gli artisti degli anni Ottanta: il confronto con il gruppo della Transavanguardia, in particolar modo, lo ha confermato nella direzione intrapresa di una accentuazione espressionista, anche se il suo dato di partenza imprescindibile rimane quello di lavorare sul motivo. Le sue scelte coincidono col ritorno alla pittura come tendenza degli ultimi dieci anni, alla pittura dai colori intensi che l’artista sente il bisogno di contenere e delimitare dentro strutture spaziali. C’è in lui il coraggio di buttarsi dentro la complessità del visibile fidando nel suo intuito, nell’uso sensuale del colore, della materia. A voler seguire l’itinerario di questi ultimi dieci anni fino all’ultima mostra romana si notano alcuni mutamenti: nelle opere dei primi anni Ottanta l’elemento gestuale, “febbrile”, era preminente sulla struttura visiva. Tocchi di colore a virgole larghe e brulicanti erano il risultato di un modo di dipingere immediato, rapido, prevalendo la massa cromatica al limite della riconoscibilità sulla spazialità accennata. In questi ultimi anni i piani e lo spazio sono diventati più evidenti, secondo un rigore compositivo razionale, le stesure di colore nella corposità di molte velature sono diventate più ampie e rasserenanti; l’elemento dinamico, quando permane, si colloca in un ordine di piani e di superfici, dentro poche e sicure dominanti. Riduttiva mi pare la lettura intimista fatta da Barilli; mi sembra, invece, una pittura in cui la fragranza e la visionarietà riescono a coesistere, una pittura che ha qualcosa di libero, di immediato, di indefinito, espressione di una fiducia verso la bellezza della materia, verso una natura amata, pur nella sua complessità misteriosa: sulla superficie de La casa rosa la massa della buganvillea si trasforma in cupa ombra alonata di lacerti rossi; in Case e alberi a piazza Vittorio gli alberi gialloverdi resi per striature larghe si antepongono alle superfici rosse e rosa delle case; ne L’albero di fico in primavera i percorsi dei rami si organizzano in forma, conservando la vibrazione dentro la chiarezza dei tracciati. Tra i migliori risultati è Forno siciliano, uno spazio carico di memoria contadina che diventa realtà trasfigurata di piani e di colore: il bianco dorato che si compone in dilatate e piatte forme geometriche rischiarato dal tizzone dentro la “bocca” color ruggine, mentre in basso a sinistra un’arcata di grigi e di azzurri introduce l’elemento visonario.

Scrive Benjamin che compito dell’infanzia è inserire il nuovo nello spazio simbolico. Al bambino è infatti possibile qualcosa di cui l’adulto è del tutto incapace: familiarizzarsi con il nuovo. Con Franco Polizzi scopriamo una nuova Sicilia. Al di là di stereotipi consumati una nuova realtà della Sicilia entra nello spazio simbolico.

(Polizzi la bellezza della materia, «Il Giornale di Scicli», 1 maggio 1988)