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Franco Polizzi » Marco Vallora
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Non so perché. Ma tutte le volte che penso al vecchio Cesare Zavattini, due o tre immagini nitide di lui mi ritornano alla mente. Una di queste... mi pare proprio di rivederlo, mentre ancora si riaccende di rabbia ed entusiasmo. La raccontava negli ultimi anni, ancora ferito da quella sorda ingratitudine. Zavattini – più o meno anni Cinquanta – è stato attraversato da una di quelle ideuzze di sceneggiatura, che lo riempivano di orgoglio e di balbettato entusiasmo. Che come insetti molesti, continuavano a punzecchiarlo, finché l’orecchio di qualcuno, produttore o sceneggiatore che fosse, non vi prestava attenzione. Va in giro dai suoi pretenziosi registi, amici e distratti, occupati da ben altri problemi, e cerca di venderla, a tutti i costi. Anche gratuitamente: purchè gliela realizzino.

Non importa in quale film. Può essere una commedia o un mélo. Bellissima come Il bell’Antonio. Basta che ci sia una strada, uno stralcio di cielo, la possibilità di uno sguardo che si levi all’orizzonte. Dunque, sul più bello della storia, del procedere del film, in quel cielo, transita imprevisto un aereo, col suo rumore riconoscibile, il sibilo trascinato, magari anche la striscia di bianca nuvolaglia. Il protagonista (o un comprimario, ma che imposta questo! basta che sia) solleva per un attimo gli occhi e segue con lo sguardo, finalmente attratto, quell’aereo: si distrae dalla sua storia, per un istante.

Si perde. Dietro quella pancia pregna di storie. Chissà quanti destini trattenuti da quelle finestrelle, quante possibilita di racconti. Semplicemente il sospetto che il film potrebbe prendere tutt’un’altra svolta, potrebbe d’un tratto cambiare tragitto e seguire quella rotta lontana, perduta. Mutando radicalmente di corso.

Una bellissima metafora dell’imprevedibilità delle storie, dei percorsi mancati, dei destini castrati dall’annodarsi della finzione labile: insita in tutte le affabulazioni. Se giro di qui, in quest’angolo non previsto, chissà che sviluppo potrà avere il film. Un momento, un dubbio. E che ne sarà di tutti gli altri possibili, frettolosamente scartati? (Se ne sarebbero poi ricordati, non casualmente, Truffaut da una parte e Demy, per tutti i suoi film).

Ecco quello che mi ha richiamato in mente quest’intenso olio di Polizzi, che si intitola Luci della sera, terrazzo e paesaggio. Non c’è nessuna presenza umana, diaframma fra la notte nera e noi, spettatori nemmeno invitati: ma tutto ci parla dell’atmosfera ormai in disarmo di una festa che

si sta sfilacciando all’interno: alle spalle di noi testimoni. C’è come la voglia di uscire finalmente a prendere una boccata d’aria, a rinsavire, a ritrovare gli occhi della ragione. Tra quel languire di fiammella che si sporge sul nero imprecisato della notte e un bagliore di riflessi interni, che si proiettano sullo scheletro fantasmatico della terrazza.

La notte, il pastello burroso del cielo, quel sintetico pendantif di luna lontana e guardinga e – te ne accorgi soltanto dopo un istante di stupore – quel guizzo di luci a fiammella affusolata, che un aereo troppo lontano si trascina appresso, quasi una cometa di affetti e di emozioni, per sempre imperscrutabili.

Una coda di complicità sfuggente, che ti proietta subito in quella calda lontananza, ancora e per sempre sconosciuta: impenetrabile. Notturna nostalgia dei possibili.

Non so se ho fatto bene a partire da questo quadro targato 1987. So che se fossi un conoscitore degli anni Duemila, e il catalogo di Polizzi si fosse completamente disfatto nel nulla, probabilmente sarei incorso in uno dei più classici e tremendi equivoci, se solo avessi tentato di ricomporre un’improbabile cronologia delle sue opere. Un’archeologia del futuro.

Onestamente sarei forse partito da quella Visita (che ora so del 1993-94) e che nella sua compattezza di sguardo uniforme, di salinita di zolfo, quasi alla Silvestro Lega (cui del resto sembra alludere il titolo stesso) potrebbe effettivamente far pensare a un’opera degli esordi. E poi via via avrei posposto, come successivi, quei pastelli mantecati e nebbiosi, dalla vista slabbrata, che ora invece mi risultano risalire ai suoi primissimi inizi, 1980-81 (magari giungendo fino alle sfuocate visioni di Concerto e di Stadio, che sono effettivamente del 1974).

Un’ingenuità, certamente, un equivoco, forse anche un po’ corrivo: ma a questo punto è inevitabile tener conto di simile percorso a ritroso, che ho involontariamente, pigramente imboccato. Polizzi parte dunque da un’immagine confusa, bagnata, pastosa, ricca di mille viola e venature e venuzze, com’è il bellissimo Paesaggio a Contrada Colombo o il temporalesco Tramonto sulla strada, gonfio di umidori e tempeste. O addirittura da quelle icone sbrecciate e flou, come di nebbioso carboncino, che sono gli Stadi o il Concerto. E poi affina, appunta il suo sguardo, quasi si trattasse di temperare una mina di grafite, di mettere a fuoco l’immagine, con le lenti esatte della saggezza matura.

Ma poi non è nemmeno così vero, tutto è più complesso: Polizzi ha a disposizione molti sguardi, come può rivelare quella compresenza simultanea di una nitidezza incisoria, del tipo La visita, così però a minima distanza temporale dal confuso dagherrotipo della memoria decomposta di Finestra aperta all’interno (1992) quanto del successivo, smagante e assolato Torretta degli Iblei.

Certo, negli anni, Polizzi sembra aver affilato il suo bisogno elementare, cartesiano di trovare nel proprio sguardo le ascisse e le coordinate di una visione lineare, manichea (che come lui stesso ricorda, proviene forse sin da Piero della Francesca, da Vermeer) nonostante quel frequente snebbiarsi delle diottrie pittoriche.

Nel curioso neosimbolismo de Il tavolo bianco e la notte, quasi un omaggio gesualdobufalinesco a Böcklin, il candido sudario borghese della tovaglia, che quasi tracima nel mare, si dispone bianco come un palcoscenico lunare, ad accogliere la recita accostata e scolastica dei due educati cipressi della Notte, che declamano la loro risaputa poesia: come sorgendo direttamente da quell’eucaristico pianoro di tarda cerimonia.

E sarà poi, via via, il tratto netto, deciso, se pure incurvato, del latteo decolleté della bianca porzione di golfo, nel Paesaggio di luce mattutina; oppure il gioco antico di prospettive che si rincorrono nell’arco crollato della Finestra sulla casa abbandonata. O il rimbalzo a coltello, quasi sofficesco, di tetti e casolari, in Campo giallo con casette o Paesaggio con campo giallo e casa d’estate e ancor più Gruppo di case meridiane.

Dunque Polizzi ha sempre bisogno di uno sfondo significante e poi di qualcosa “con” cui riempire quello spazio, quello sguardo. Paesaggio con figure, per dirla con Handke e Mattioli, omaggiato in Ombra nel recinto. E, di nuovo, il bisogno del taglio netto, sia pure nello sfaldarsi lirico delle paste pastellate. E penso alla curvatura perentoria e di ampio respiro blumarino di Stradina al mare (l’ultimo, a quanto pare, in ordine di tempo) contrapposto all’intersecazione scandita e lineare del Paesaggio con muro di cinta, quasi inscatolato in una rigida calvizie araba, con quel ramingo saluto di palma, che sventola a fatica proprio sul crinale dell’albina fortificazione di tufo.

E forse tutto è più chiaro in Porta-finestra di luglio, questo scrigno bluastro di luce, che incornicia, con nitido gioco di scheletri in alluminio, il tripudio orientale di quella dorata e sfatta luminosità, che già ha incominciato alla sommità dei pannelli a intraprendere il suo mordace lavorio da roditore metafisico. La luce come corruzione e insieme salvezza.

A differenza di Matisse, Polizzi non usa la finestra come schermo illusorio per far filtrare e circolare la luce del fuori mediterraneo, fin entro la gabbia friabile dell’atelier (quella circolarità che ha spesso portato il pittore francese, tavolozza in mano, a farsi sorprendere dentro l’ampia circolarita di quest’abbraccio cosmico). Semmai Polizzi, che è già sempre come all’esterno, usa la vermicolare vetrosità dei suoi stipiti e dei suoi pannelli, proprio per ingabbiare una sensitività (ancor più che non sensazione) labile ed ingannevole, accalappiandola entro il pozzo violaceo della propria inesplicabile interiorita.

Che cosa c’è di più informale e di imprendibile della luce? Ebbene, lui ci restituisce delle ben confezionate scatole di dolce luminosità serale: rassicuranti sarcofaghi di solarità meridiana. Molti hanno parlato e autorevolmente della drammaticità allarmata degli interni di Polizzi, che io onestamente non riesco ad intravvedere. Forse c’è – com’è nella tradizione siciliana, che così bene Polizzi omaggia, spesso ripensata dalla sua nostalgica lontananza cittadina e capitolina o nelle pigri estati del ritorno di Ulisse a casa – il caglio roditore e ammonitore della melanconia: ma non direi drammaticità o allarme.

E altrimenti, come giustificare quella seraficita vespertina e arcadica, da Metamorfosi di Ovidio, del cesto colmo d’arancio che si sbrina nella lavanda del tramonto di Cesto con frutti o ancora, lo sfibrarsi radioso di una Buganvillea sopra i lacerti di un rasserenato puntinismo alla Balla, ovvero il dolce congedo verde-muschio di Finestrella?

E se guardiamo per esempio l’ampio dispiegarsi coreografico di Villino, o quel campagnolo invito colorato di Porta-finestra verde o quel sereno, cespugliato Paesaggio prima della tempesta, ci rendiamo conto che la violenza usuale del vivere quotidiano si presenta con ritrosia e riserbo, alle porte di questo universo preservato e silente: avanza in babbucce.

E nessun James Bond o Hercule Poirot o Lemmy Caution potrebbe penetrare entro queste guaine soffici e gentili di case e paesaggi, a inquietare queste quinte pressoché irraggiungibili di frammenti narrativi depurati di ogni romanzesco. E se quel bordino di braccio maschile, in Oggetti sul tavolo e divano a strisce (o potrebbe trattarsi della sottile sagoma di un fianco, appena appoggiatosi in bilico?) sembrerebbe far penetrare dentro quel mondo subacqueo un frammento, un microbo di narratività, subito la pacifica barriera di quegli oggetti così “Nuova Oggettività”, ci garantisce che nessuna incursione violenta sovvertirà mai quella calma imbrigliata.

Gli stessi, rari quadri di figure di Polizzi, hanno un’aria antica, compassata, leggermente mitteleuropea, dalle parti della Trieste di Marussig, di Marchig o Bolaffio (che sia l’insegnamento veneziano di Carmelo Zotti?). Persino i nudini balneari di Ragazzi al mare o la donna spogliata sul divano di Ritratto nudo, sono infarinati come in una patina smorta, che cancella le asperità sensuali dell’anatomia, le curve piu riconoscibili. Pregi di un’araldica bonnardiana dell’intimità, che tradisce la grana della luce, quasi si trattasse della cifra segreta di un tappeto intessuto nell’aria.

II declamato di Polizzi evoca una lenta distillazione di succhi terrestri e di latti di mandorla, piuttosto che non una rappresa concitazione drammaturgica: voci e contrasti si sono come affievoliti in una dolce polpa di friabile lattice, di liquido marzapane.

Quel docile Graal di Oggetto e riflessi sul talo non schiude nessun’avventura fantascientifica ma sigla un domestico concerto da camera di lucide rifrazioni. Ed anche l’apparente incidente di Finestra con vetro rotto (che semmai dovrebbe sottolineare proprio quell’istantaneo trauma dell’immediato) si dispone invece in un limbo imborotalcato d’intemporalità mitologica, qualcosa che sa d’impolverato, di sospeso, di stampato misteriosamente nell’eternità: i pezzi frammezzati di vetro stanno ancora scivolando infrangibili nell’illocalizzabile corridoio del Vuoto.

Com’è diversa, per esempio, la sua luce, disfatta e lebbrosa, da quella più diretta e vibrante del vicino degli Iblei, Giovanni La Cognata. Anche se per certi versi Polizzi sembra nascere dalla costola feconda del “patriarca” Guccione, l’orizzonte del suo sguardo si amplifica sino ad intercettare le asperità della vita: ma tutto è come attutito e ingentilito da una pennellata pastellosa e virginea. Anche il fuoco spazzolato e rabbioso di Notte d’agosto e di Fari nella notte viene come subito protettivamente ricomposto in una trama aurea, pitagorica dello sguardo, in uno scheletro gentile di visione decorata – lo sintetizza il fragile ostensorio di Trespolo con cubo e melograno.

O quella decomposta doppia melograna, ellissi vuota di un DNA bacato della natura, posata come sul vassoio patibolare da un’innocente Salomè. E lo dimostra bene quella nera, gattopardesca finestra incorniciata di La casa abbandonata, che trafigge e trafora pure il proustiano pan giallo smorto del casale intonacato, bucando la pellicola sottile della superficie dipinta, come raramente potremmo attenderci in Guccione. Il colore di Polizzi è spesso interrogato e sfilacciato nel suo ordito, attraversato dal respiro incandescente della pittura. E questa finestra, appunto, svela anche il nero interno che si nasconde dentro il frutto della luce. Il controluce notturno della vita.

(Nel frutto nero della luce, presentazione in catalogo della antologica, Casa dei Carraresi, Treviso 1997)