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Franco Polizzi » Marco Goldin
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Franco Polizzi dipinge la resistenza di una malinconia mai estenuata, e non filamentosa e lamentevole, ma sempre, invece, stampata come voce sonora, udibile, rimbalzante dentro le terre arse della Sicilia investita dalla notte misteriosa. C’è, in questo buio lumeggiato di stelle, di illividite correnti siderali, un senso d’attesa, d’epifania, e il rumore sordo, placidamente subacqueo, di un fiume di lava macchiato del blu intenso del silenzio. É quella luce arcana che sospende le cose dentro un tempo immobile, sfilaccia in molti punti e incastri, generando polle, resorgive, zone in cui un fiotto di luce appena percepita sale miracolosamente in superficie. Questa frantumazione solare, dentro la ricomposta armonia di interminabili pomeriggi nella casa iblea, pare essere, bellissimo, l’approdo del dipingere, che non sta a Bonnard più di quanto non sia, anche, il riflesso muto della coscienza, scavare e affiorare poi gli intrichi, ingorghi e forti, non episodiche, pulsazioni. Sentimento malinconico, di calda, inesauribile offerta di sé alla pittura, come fosse il raggio di una luna invisibile che fascia in un’alone la terra senza indicare mai il punto della propria caduta.

Naturalmente emozionata, la pittura di Polizzi possiede questo senso del destino, ne lascia avvolte tutte le cose, infine quelle figure come stranite e sempre sull’uscio di una porta, che a tutto conduce meno che a un luogo certo. Anzi quel luogo rimanda, sull’alta terrazza, una luce di zolfo dorato, muro compatto che non mostra smagliature, e si manifesta invece quale tessuto luccicante ma funebre. Sta nell’eccessiva luminosità, nell’improvvisa tendenza all’ombra perenne, alla notte incombente, un presagio, il senso di un lutto; come se in quell’esagerata, mediterranea perfezione meridiana crescessero già, non ancora avvistati, i segni di una scomparsa, di un probabile, futuro, definitivo affondamento di tutto.

Così le ombre invadono le stanze, squarciano il giallo avvampato del sole di Sicilia, divorano le pietre dell’antica masseria. Ogni cosa infine, sottoposta al potere assoluto del nero annunciante. Nero nelle sue diverse impercettibili gradazioni; all’inizio quasi trasparente, come un’elitra, poi più cupo, fino a distendersi nella notte ferita. Ma dentro quel nero pauroso, Polizzi accende fuochi, combattendo una sovranità inquietante. E tutto il suo lavoro, il suo raccolto di imperscrutabili silenzi, altro non è che un porre argini visibili a quella marea nera montante. Dighe di luce contro la notte e l’ombra, dietro la tenda vaporosa di un tramonto appena al suo inizio. Come chi attende che qualcuno, ormai inavvistato, giunga dal mare in uno scalpiccio d’onde e risacca, così ci si ferma attoniti, sui bordi corrosi, incatramati dalla sera che viene, di un piccolo muro di campagna. Splende una luce che non si sa, ed è il variare flebile che fa l’infinito, sul cui limite si sta completamente assenti.

(presentazione al catalogo della mostra personale, Galleria ll Cenacolo, Piacenza 1993)