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Franco Polizzi » Marco Goldin
X

I.

Alla casa si arriva d’estate, al tempo del sole a picco. Ma quando ci si arriva è quasi sera e il tramonto è già stato, del sole è l’immagine che non c’è. E su tutta la terra che da lì si vede è concentrata una luce che svanisce, ma non si disperde e anzi è materia delle cose, è sostanza della natura. Si entra nella casa ma non si entra subito. Prima occorre oltrepassare un grande portone. E prima ancora si era percorso l’ultimo tratto di una strada adesso non asfaltata, anzi tutta accidentata, in mezzo ai carrubi ma non troppo. L’auto si può lasciare proprio sotto un’ombra, che a sera sembra quasi inutile, ma poi si guarda quell’ombra come un approfondirsi della notte, o una sua dolcezza estrema, invadente, visibile.

La scala è a sinistra, appena oltre il portone. Dalla scala ancora non si vede il mare, ma il mare resta subito come una presenza. Da lì, dal centro del cortile, in basso, infilati dentro la pietra della casa. Poi si sale, tenendosi da un lato per non cadere. Prima si scorge un grande campo che ha carrubi per confini, poi si sta sul terrazzo come su un’alta torre. Ancora campi e carrubi, finché, in fondo, il mare. Da qui è una spianata, una linea di costa che improvvisamente si sdoppia e riceve la luce non come una ferita ma una carezza, un’intensità che non si spezza e si diffonde nell’acqua rimasta immobile, muta, soltanto silenzio. Ma, spostandosi ancora, un’altra casa, quasi sorella, lasciata così, lasciata perché il tempo, e gli anni, le si avvolgessero attorno, la fasciassero tutta. Anche quella casa vede il mare, o il mare guarda tutta la terra.

La casa è il centro del mondo, questa casa è il centro di tutto. Si sta nelle stanze con la luce della sera, piano, una luce solo bisbigliata. Si sta nelle stanze e si vede fuori la notte che viene.

Dentro, non si accende alcuna luce, finché la luce cessa del tutto, ed è solo buio, velluto dello spazio scuro, cecità. Quello che era il giorno non esiste più, e senza vedere si lascia che la notte entri dalle finestre, dalla porta rimasta aperta; che l’assenza della natura sia l’unico pensiero, immagine, l’unica stazione a cui ritornare. Si vede il buio perchè comunque occorre vedere, e anche senza vedere è una presunzione di realtà.

Seduti dentro la stanza, abbassati rispetto all’orizzonte della finestra, altro non è possibile se non vedere la notte indistinta penetrare nella casa. Come si vedrebbe una nebbia d’alta montagna, una grande nuvola bianca spostarsi da una cima all’altra. E nella notte del Mediterraneo, guardare questa massa scura appena spostata da un vento inesistente. Poi ci si alza, perché infine non è possibile tenere stretta tutta questa notte, e c’è il bisogno di andare dove la notte è una cosa infinita, ha qualche fuoco acceso; punti di passaggio, strade, lumi non spenti.

La casa ha un terrazzo che sta alto sopra tutta quella notte. Quello che succede da lì si vede e niente può essere dimenticato. Si resta davanti alla notte in attesa, scegliendo prima il punto più lontano, il punto del mare. E sul mare le barche notturne che vanno, con una lampara. Per chi sa, anche il vecchio moncone di ciminiera, sciolto a poco a poco dal vento. E da quel luogo ci s’inoltra, senza fretta, dove la notte è più vicina, e la si conosce perchè si sa che in quel punto è stato anche il giorno pieno.

II.
Il ragazzo ha molti silenzi, poche parole.

Imbarazzi, piuttosto, e amore segreto per le cose. Si mette in piedi a guardare da quel terrazzo, e crede che quello spazio tra i suoi occhi e il mare sia la vita senza bisogno d’altro. Vede lo spazio non come una dispersione, ma cerca le brevi misure che conosce, e l’amore per la natura è in questo passaggio, in questo viaggio, in cui crede di scoprire una ragione dell’essere.

Il ragazzo ha commozioni forti, qualche pianto trattenuto quando si mette la sera su quel muretto. Bisognerebbe sapere cos’è il profumo della sera in Sicilia, cos’è la sera, e poi la notte. Le stelle dentro la notte, questo grande lago che non ha rive, non approdi, non spiagge, ma solo echi e silenzi, silenzi prolungati, inafferrabili. Capisce che questa notte non è una vana parola ma un fatto del destino. Notte che viene sopra una terra che ha il giallo implacato dell’estate, la sua secchezza, e potenza e mai dispersione. Sta seduto a guardare, finchè guardare non basta più, perché la notte è una dimensione dello spirito, e sono altri confini.

Il ragazzo ha passioni, e gli pare derivino però dalla sua malinconia. Ha passioni appena dichiarate, sempre sul punto di volgersi nella nostalgia della terra, del vento, della notte. Ma sono sul ciglio, per un momento si lasciano vedere. La casa è sempre lì, adatta al giorno come alla notte, al ricordo come alla previsione. Il ragazzo ha molti silenzi, commozioni, passioni.

III.
Il pittore è un ragazzo. Ha vent’anni quando dipinge una notte affondata nell’antro ancor più buio di un altro pianeta. Scossa e percorsa dal vento, chiara dove accenna a finire, o forse è il tempo che si modifica nello spazio. Ma in questa notte dipinta ci sono lumi di una Pentecoste, fuochi, fiammelle che ardono e mano a mano si spengono, per diventare prima nebbia, poi neve, poi tempo. Il pittore è un ragazzo, ma ha già una malinconia, e lascia che la vastità si depositi su di lui, senza che diventi tempesta, o burrasca che poco si vede dal terrazzo.

Poi dipinge la terra, sono passati alcuni anni. Cicatrici, abrasioni, fioriture, giunture tutte grattate, che adesso sono segni sull’altopiano e poi saranno anche mandorli fioriti, o un tappeto nella casa dove entra la notte. Il pittore guarda la terra dall’alto, la raccoglie tutta nello spettro della visione, fino agli estremi limiti. Al pittore interessa la realtà. Poi la trasforma, la rende un’altra cosa, ma non saprebbe partire che da lì.

Capisce allora perché ha a lungo guardato. Lo capisce quando nello studio in cortile è in piedi davanti alla tela. E dipinge la natura come ricordo del vedere, e senza l’aver visto non ci sarebbe la pittura. Ha interesse per la grandezza dello spazio, per il suo essere immisurato, privo di confini, forse innominabile. Indistingue le cose, lascia che ne risulti una poltiglia colorata, da metterci dentro le mani. Accenna appena a una striscia di cielo, dove 1’azzurro è tormentato da qualche sbuffo di nuvola. Ma poi si concentra a dipingere una ruggine fiorita, a grandi macchie più scure, dove sia il tramonto come una bruciatura, e tutto il resto della terra rimane invaso dal primo freddo dell’ombra.

IV.
Il pittore è ancora un ragazzo. Ma la notte

non è più solo una vastità indistinta, la terra non il distendersi delle colline. Il pittore dipinge la sua casa, lo stipite della porta che conduce al terrazzo. Si vede una palma, la casa sorella, il timpano come quello di una chiesa a Noto. Dipinge la via deserta del suo paese, dipinge la solitudine non generica di un’ora che allunga le ombre. Il ragazzo ha una malinconia più virile, che svuota ancor più le strade, ma dopo averle rese una descrizione della vita. Ha cambiato il modo del racconto.

Sono emozioni appena accennate. Le case di Sicilia stanno ritte contro l’azzurro diafano, nel tempo dell’inverno che precede la pienezza del

l’estate. Attaccati a queste linee di paese come a una nuova riva. Il ragazzo ha trovato presto il suo porto, vi si aggira adesso ancora con timore, ed è un inventario, mettere in fila i dati della luce e quelli dell’ombra. Fare pittura con le cose note.

V.
Il pittore è diventato padre, non è più un

ragazzo. O forse gli anni sono ancora quelli di un ragazzo, ma la luce entra buia dalla finestra, mentre la luce è chiara fuori della finestra. Chiara. Nell’esatto controluce di un’esposizione fortissima del sole, c’è solo il bianco, non la purezza ma la nebbia. Dell’agave, dell’estate, del balcone stropicciato contro la parete, della bambina stretta in un abbraccio. La bambina è come la luce, la bambina è una pittura. Si presentano, padre e figlia. Non al Tempio, ma alla luce, alla sonorità silenziosa, lentissima di questo biancore sfolgorante.

VI.
Il pittore non si sposta dal cammino. Ha

piccole deviazioni, esili variazioni. Si commuove sempre, come una volta davanti alla notte. Talvolta sente il bisogno di una luce più calda. Si sa, ha voluto sincopare il sole di Sicilia, farlo asciutto, definito nel suo ghiaccio quasi metafisico. Ma poi gli prende una tenerezza più forte. Fioriscono i mandorli, o restano cortecce dentro l’oro lucidato d’agosto. Non c’è nessuno. Il pittore ricorda quand’era ragazzo, tra i mandorli, immaginando d’essere pittore. Non c’è nessuno, nessuno verrà. È solo il mese d’agosto.

VII.
È passato qualche anno, il pittore non ha mai

smesso il suo lavoro. Adesso ritorna alla notte. Il pittore sa che esiste la morte, qualche volta l’ha incontrata, segretamente l’ha dipinta. Senza dirlo mai a nessuno. C’è un tavolo davanti alla notte, da ventiquattro posti ma vuoto. Con una linda tovaglia bianchissima. Il tavolo non è apparecchiato, sta in fronte a due grandi cipressi e i due grandi cipressi sono piantati sulla riva del mare. Il mare ha qualche luce, il mare è attraversato da correnti che si vedono. Il pittore vuole, anche se è notte, che tutto si veda. Non si sente alcuna presenza, solo l’assenza di qualcuno che forse era lì.

Il pittore sa che esiste la morte; pensa che la morte sia un luogo di confine, pensa che anche non si veda. Dipinge la morte come una invisibilità, e ci mette sopra una tovaglia bianca. Ha ricordi di chi stava a guardare la notte, e nella notte è l’inizio e la conclusione del viaggio. Adesso dipinge la realtà come qualcosa che non c’è, accosta quello che vede a quello che è diventato sogno, pensiero. Pensa che la pittura sia da una sovrapposizione. Così i cipressi stanno davanti alla spiaggia di Sampieri, la spiaggia dell’infanzia, e il bianco è il vestito della prima comunione. Ci fu una grande festa e il mare era rischiarato da luci e fuochi. Il pittore sa che esiste la morte. In

fondo, molto lontano dal punto nel quale adesso sta lavorando. Una striscia nera, un sole nero scomparso, già, è la notte. Nella pece della costa che si specchia, e dal buio piu fitto si manifesta il chiarore dell’alba. Il pittore sa tutto questo, usa la pittura per una confessione.

VIII.
La casa è sempre la stessa, qualche tempo

ancora é passato, una storia si succede all’altra. Allora il pittore sente il bisogno di raccontare, di non lasciare nulla di non detto. Ma dirlo nel solo modo che gli è sempre stato proprio, con l’assenza. Un vetro rotto, una figura che sta immersa nel giallo eccessivo del giorno, un viaggiatore colto dal sonno nella notte disabitata. Infine una riunione di gente, sull’assito della terra, sul parquet di sabbia davanti alla casa sorella. Come avere convocato generazioni, smosso il tempo, mescolato il tempo. E il tempo potere guardare se stesso, o il pittore guardare il tempo nel volto di chi ha accettato di essere chiamato.

Questa pittura è giunta a intercettare la vita, ma ha spogliato di tutto la vita. Levigata superficie, lisciata mille volte e mille volte ripresa. Tormentata nel colore, perché il colore potesse essere applicazione lenta del pensiero, spiegazione del destino. Il pittore le assegna un primato. Stanno, queste figure, sotto l’albero in cui sono raccolte le storie d’ognuno, a interrogare proprio lui, il pittore, che le ha volute là alla stessa ora del tempo. A interrogare e fissarsi, prima di scomparire via.

IX.
Il pittore conosce la sua terra, sa della luce

davanti al mare, non si è stancato di vederla apparire e poi immergersi, sprofondare. Desidera continuare a dipingerla. La luce che sbatte sui muri, o si appoggia, si deposita. O s’intride dentro il campo di grano, giallo nel giallo, luce nella luce. O si adagia poco prima di sera. Il pittore conosce tutto questo. Lo occupa da molti anni ormai. Ma scopre ogni giorno di non conoscere molto altro. Che la luce si manifesta in diversi modi ancora, e che tutto questo egli non ha avuto l’occasione di dipingere. Così progetta nuovi quadri. Lascia che sia la luce stessa a guidarlo. Ha la certezza di volersi fermare davanti alla natura per sempre. Guarda la natura e la pensa come un’eternità. Pensa a cosa sia l’eternita, qualche volta ne ha paura, ma continua a dipingere. Se si sente vinto, pensa alla natura, alla sua terra. Pensa a quando la notte entrava nella casa e la notte non portava luci, e occorreva alzarsi per vedere che la notte portava invece luci lontane. Pensa che questo non è cambiato, e la notte entra ancora nella sua casa con le finestre aperte e la porta spalancata. Ha il desiderio di non chiuderle mai.

(Stazioni, notti, fuochi, presentazione in catalogo della antologica, Casa dei Carraresi, Treviso 1997)