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Franco Polizzi » Elisa Mandarà: Intorno al paesaggio e alla luce, oltre la cortina del finito.
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Un uomo si propone il compito di disegnare il mondo. Nel corso degli anni popola uno spazio con immagini di province, di regni, di montagne, di baie, di isole, di pesci, di abitazioni, di strumenti, di astri, di cavalli e di persone. Poco prima di morire, scopre che questo paziente labirinto di linee traccia l’immagine del suo volto.

Borges

Una giostra di toni contigui e di trasparenze, perlescenti, costruttive, dà consistenza protagonista alla Nuvola incombente. Presagio vedibile di tempesta, satura l’aria della scena il suo corpo sinuoso, come donna che posa la sua presenza fresca e sensibile sulle cose del creato, calandosi dall’aerea levità celeste ai pesi progressivi del mare, dei fiori, dell’erba, della pietra.

Figura materiale e immateriale, la Nuvola esitata da Polizzi in questa estate del 2014 condensa i sensi in cui il pittore concepisce e conduce la sua pittura di paesaggio. Nei verdi sovrastati dalla fisicità tangibile delle masse d’aria, nelle intenzioni blu di acqua, avvertiamo pieno l’investimento valoriale di cui l’artista carica lo scenario naturale. Che non è mai mero sfondo, per Polizzi, non è mai accessorio subordinato a temi ulteriori, contorno o dintorno d’altro, ma soggetto autonomo – modernamente –, agente primario dell’emozione estetica e spirituale.

«Un pittore deve essere parte del suo paesaggio, potervi trovare il meglio. Come la terra riflette il cielo e il mare riflette la terra, e ciascuno è parte dell’altro, così il pittore deve imparare a riconoscersi – per così dire – materialmente e spiritualmente nel paesaggio e a riconoscere il paesaggio in lui» (Graham Sutherland, Parafrasi della natura e altri scritti sull’arte). Delle distese di grano, delle rocce, dei tramonti, il pittore assorbe e restituisce una rete fitta di valenze simbolico-rappresentative, che comportano un costituirsi dinamico dell’artista nella natura, un loro rapporto d’interrelazione, in cui s’eclissa per sempre l’idea di un uomo agente e d’un mondo agito.

«Ciò che sembra esteriore è in noi che lo scopriamo. La nozione di cosa mentale, dice Leonardo da Vinci della pittura, può essere applicata a ogni opera d’arte». Citava il genio rinascimentale Proust, quando, nella Recherche du temps perdu delineava l’ideale di una pittura che, lungi dal risolversi in un mero intrattenimento estetico, va intesa anzitutto quale esercizio dell’anima. L’invisibile è la sola via per comprendere il visibile.

Che l’arte si collochi in una regione franca, mediana tra materia e spirito, sa bene Franco Polizzi. Il suo iter creativo, connotato nel tempo da una limpida e singolare coerenza, attesta ogni giorno che la pittura è primariamente se stessa, pennellata, colore, fisicità di relazione tra occhio, mano, corporeità del quadro. Comprova questa esaltazione dei valori pittorici, nel dettato di Polizzi, la predilezione che egli nutre nei confronti di artisti che, sia pure lontani dalla cifra polizziana, dal suo emporio tematico come dalle scelte di stile, perseguono una resa massima di quella che potremmo dire una pittura-pittura. Due per tutti, Richard Diebenkorn e Howard Hodgkin.

Ma l’arte Polizzi ha abbracciato simultaneamente nella sua accezione classica, quale culto del bello, omaggio sublime quotidiano al vero naturale. Sono fogli di realtà, le opere di Polizzi, fragranti di una bellezza sensuale, che origina dalla visione dei luoghi cari, il mare di chiarità di Sampieri, il terrazzo che affaccia a San Marco, la campagna che lontana Distanze, fino a perdersi nell’infinito lirico.

Spazi, questi, sottilmente indagati o liberamente restituiti, nel paradosso del disfacimento della figura formata – qui uno dei tratti peculiari del virtuosismo polizziano, in dialogo libero con Bonnard – tra i quali domina, quale collante emozionale, la commossa partecipazione panica alle epifanie più smaglianti del creato. Questa immersione totale nel vero non è peraltro diretta: un filtro essenziale di intelligenza compositiva e di cultura figurativa s’interpone tra l’immagine retinica, sostanziata delle percezioni visive, i moti del cuore e l’invenzione che l’arte esige perché sia tale.

Si osservi l’impaginazione dinamica, sempre diversa, opera per opera, dei luoghi abitualmente visitati dalla vista, un rigoglio di immagini tradotte in rappresentazioni, ove il fremito della scoperta d’un nuovo fiore, il brivido d’un baluginio repentino nel cielo, la felicità nell’incendio dei gialli della stagione dei risvegli – in una parola, la passione per la potenza fenomenica del creato; passione non semplice piacere – Polizzi armonizza, senza frattura estetica, con la padronanza tecnica dell’olio e del pastello, con la sapienza raffinata del segno, che magro profila la silhouette delle cose del mondo, oscillando magnificamente tra realismo ed espressionismo, tra composizioni fortemente strutturate e destrutturazione dell’oggettività, tra visione e visionarietà, tra narrazione figurativa e trasfigurazione simbolica.

Non può non essere complesso lo specifico di un artista che milita nella battaglia sublime contro la perdita della memoria della storia dell’arte, dei maestri che lo hanno innamorato alla pittura, artefici d’un cosmo tradito e finanche negato da talune deteriori declinazioni del contemporaneo, che procede certo per avanguardie e costruttive sovversioni, ma anche per mendaci rivoluzioni del nulla. Non può non essere difficile la decrittazione di un artista, che alla autenticità dell’ispirazione accompagna una raffinata quanto variegata cultura. Figurativa, in primo luogo, di matrice francese e italiana, ma con una attenzione ricettiva verso il Novecento Americano, dispiegata in una mappatura non lineare, intricata, poiché da ogni caposaldo dell’arte Polizzi estrae e reinventa quel tanto di confacente al proprio temperamento. Cultura pure letteraria, sostanziata della linfa robusta novecentesca dell’esistenzialismo. E cultura cinematografica, che in Polizzi diviene precipitato caleidoscopico dei silenzi interiori di Wim Wenders, della pittoricità delle immagini di Antonioni, del senso arcaico e favolistico impliciti all’ironia e al dramma di Pasolini.

Si guardi a due lavori dell’ultima stagione creativa, Un istante e La strada per il mare. Soggetti paralleli. Possiamo quasi vivificare l’immagine del pittore che percorre un tragitto quotidiano, sotto i piedi la via, ai fianchi la macchia vegetativa mediterranea, davanti agli occhi – e al cuore – il mare. Salva la continuità estetica, sono due quadri profondamente differenti: lampi di visionarietà percorrono Un istante, frammento poeticissimo, che sospende per un attimo la caducità dell’essere, che arresta il divenire in prodigioso incanto, col linguaggio della poesia, capace di eternare la fuggevolezza del tempo, animando la ricchezza delle ombre colorate che s’allungano vive lungo il sentiero, chiamando l’innaturalismo cromatico e la polisemia di due pilastri che si fanno antichità di cariatidi, che vigilano alla scena come sentinelle del tramonto. Si ribaltano tutte le atmosfere nella Strada per il mare, che è cammino esistenziale, ove l’ombra è chiaroscuro di vita, che scomoda l’arte on the road, il motivo epico e romanzesco, letterario tout court, del viaggio.

In ciò l’essere artisti, nella capacità di conferire temperatura a un’opera. Nell’offrire come unica ogni opera. Nella fantasia che impianta la pennellata astratta, nella densità informale di Paesaggio al tramonto, nell’orchestrazione sintetica di Paesaggio con albero. In quella zona di tormento, estesa o minima, che è nota assidua nel corpus polizziano: dolore del transeunte, della velocità che ammala il mondo, che non sfama mai il nostro bisogno di assoluti, l’anelito all’eterno. Nella libertà di aprire occhi simbolici di sensibilità, che ci guardano di nascosto, da dentro la scenografia suggestiva di Finestra d’ottobre, là, in mezzo ai viluppi blu, che il calar della sera fa del fogliame. Nella parola impossibile tra cielo e mare, che Polizzi s’inventa, quando dona voce alla Pioggia lontana, che salda in musica la frattura tra reale terreno ed empireo, questo popolato da nubi che non sono nubi: sono le stesse anime alate che corrono in volo nell’area celeste e che l’artista intrappola nel candore commosso delle lenzuola, che ospitano, quale struggente altare, l’abbandono morbido d’un Nudo.

Se poi, come afferma André Derain, la sostanza della pittura è la luce, Polizzi rappresenta magistralmente quest’arte, essendo la sua essenzialmente pittura di luce. Metabolizzata la conquista del plein air, Polizzi imbeve le sue tele dell’oro della luce del Sud. Gli squarci paesaggistici s’accendono allo splendore d’una natura percorsa e mutata da mille vibrazioni atmosferiche, dal respiro luministico che pervade legante la pagina d’Estate, dalla elettricità fredda che vibra nell’aria di quell’attimo sospeso nel Paesaggio di pioggia – è un minuto esatto dal precipitare del cielo sulla terra, in acqua, la luce è tutta implicita – dalle valenze memoriali d’una luce ritmata coi tempi stratificati di Verso l’eremo tra le rocce.

È un’elegia della luce mediterranea, l’arte di Polizzi, che serba tracce di luminescenza impressionistica, a queste preferendo però la deflagrazione della luce. Non vi è un impiego univoco della luce, ora funzionale a una presa diretta della realtà, ora rarefatta in pulviscolo, quando il senso vuole dare di malinconiche lontananze, ora tutta aurea, nelle ambientazioni intimistiche, quando il pittore accarezza i corpi contornandoli di vibrante luminosità, ancor più simbolica perché avvicinata a toni smorzati, a zone di oscurità satinata. Tesaurizza il tratteggio incrociato di Rembrandt, Polizzi, che ripartisce spesso la scena in campiture d’ombra o di luce, in virtù di raggi lucenti intersecanti, perché sia tutto drammaticamente presente, tutto concretamente tangibile. Un secondo prima dell’oblio nell’ineffabile del sogno.

È attualità effimera la bellezza, lo sa bene Franco Polizzi. Ma l’arte sa ingannare la falce del tempo, stornarne la forza, velarne la tristezza per un attimo eterno. Basta seguire quella linea rosa, lì, nel cielo d’Un istante, evasione e legame col mondo, per eludere le esattezze della normalità, per aprire un varco alla permanenza della memoria, per dissetare, in un palpito, la nostalgia d’infinito.

Elisa Mandarà