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Franco Polizzi » Guido Giuffrè
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Una pittura calda. Il pensiero che torna alla pittura di Polizzi è accompagnato da una singolare sensazione di calore. Ocre, aranci, cinabri che svariano sottilmente l’uno nell’altro; e se i cobalti in certi notturni si fanno dissonanti e fondi, e s’incupiscono – ma freschissimi – fino al blu di Prussia, pure mantengono quel calore, come se in quella Sicilia sud-orientale donde la magia così facilmente riverbera sul mondo intero – sull’intero mondo poetico di Franco Polizzi – le notti fossero sempre notti d’estate. Anche quando le immagini non si rapportano direttamente alla Sicilia, delle sue suggestioni, delle sue malie e delle sue follie esse restano profondamente intrise. L’impressione del calore è generica ma non tradisce la visione. Caldo infatti è il temperamento dell’artista, nutrito di componenti liriche ma non intimiste né patetiche; temperamento anzi essenzialmente drammatico. E proprio questa, a volerla stringere, è la chiave di lettura più corretta. Non ci sono soggetti narrativamente drammatici; inoltre paesaggi, nature morte e qualche rara figura non sono mai rappresentati con accenti o in atteggiamenti e forme concitati.

In che cosa consiste allora il dramma sotteso delle immagini? Si direbbe anzitutto nell’affrontare la bellezza, le esaltazioni e le contraddizioni di quella natura siciliana cui Polizzi appartiene irrinunciabilmente. L’artista come i migliori di quella terra avvincente ed aspra scavalca agevolmente il folklore – di soggetti e di contenuti – per darsi con apparente semplicità a quanto entra nel giro della sua quotidiana esperienza: lo sguardo come le accensioni della memoria e della fantasia. Ma sguardo, memoria e fantasia sono un tutt’uno. Così la luce veste un pendio di latente allucinazione, o una piana, o il breve spazio di là della portafinestra; i toni s’esaltano, gli accordi si fanno cocenti. Di più, può avvenire che due personaggi in forma di cipresso oltre la bianca tovaglia di un altare trasformino un notturno in imprevista visione böckliniana, o che una fanciulla si chini da un muretto riecheggiando languori preraffaelliti. Ma se Polizzi accoglie accenti oltremondani, o estenuazioni delle forme e dei sensi, dolcezze che in certi bellissimi pastelli si fanno estreme, suo tratto dominante resta piuttosto una forza latente quanto prorompente, e appunto drammatica: che non giunge al grido che non si spezza ma che freme in ogni fibra del tessuto pittorico. Si parla da un certo tempo di un gruppo di “artisti iblei” riuniti per forza spontanea intorno ai – pure così diversi tra loro – Guccione e Sarnari. Crispolti con discrezione ha avanzato riserve sulle ragioni del “gruppo”, e la discrezione non è mai troppa nel valutare rapporti tra artisti di cui va anzitutto salvata, motivata e verificata la fisionomia individuale. Polizzi è nato a Scicli come Guccione, come lo scultore Candiano, come Fiorilla, con cui ha condiviso l’insegnamento di Zotti a Venezia, senza che la forte pittura del friulano scalfisse la più

forte connaturata sua natura siciliana. La quale, come in Guccione, non è stata turbata neppure dal lungo soggiorno romano, ed anzi si è rafforzato perchè la Sicilia non lascia facilmente estirpare le radici dal proprio umorale e culturale spessore. Ma la fisionomia di Polizzi, se mantiene echi che vibrano in tutta un’area, pure è talmente personale da vanificare ogni discorso comune. Le appartiene la dedizione appassionata al mondo, così appassionata da affondare nelle sue pieghe, nelle riserve oscure onde esso nutre i suoi azzardi, ma sotto apparenza di normalità. È il colore a dare il segno della densità dell’approccio, i toni sovente si affinano di trasparenze e velature, si tendono in lame sottili trapassando l’uno nell’altro, e sovente si potenziano per il crescere dell’energia interna fino a risonanze cupe o a squilli. Nell’un caso e nell’altro, nelle rarefatte sottigliezze di atmosfere quintessenziali, percorsa l’aria d’invisibili fantasmi, o nelle echeggianti sonorità di carmini e di oltremare sempre tuttavia cocenti, nella realtà pulsano vene profonde, si levano voci da una soglia cui lo sguardo non giunge. Da qui il frequente sfociare del tempo e dello spazio – ma senza traccia d’enfasi – nel mito: le notti animate di trasalimenti, una figura che protendendo la fiamma si fa possente Prometeo, la tangenza mistica di una ciotola sospesa tra realtà e memoria. Con apparenza di normalità, appunto. O meglio in quel «sereno controllo della propria carica emozionale» di cui puntualmente ha parlato Lorenza Trucchi. Ma emozione a suo modo allarmata, ricca di dolcezze e di inquietudini, appassionata non meno che turbata.

(in catalogo della mostra personale, Galleria Bergamini, Milano 1992)