A guardare le tre tele che Franco Polizzi esponeva alla Quadriennale romana del 1975, si comprende come sarebbe stato difficile, allora, prevederne l’evoluzione; per almeno due motivi, intrecciati tra loro ma ciascuno dei quali basterebbe da solo. Da un lato i vent’anni del pittore: pochi per evidenziare i nuclei poetici già presenti nel suo lavoro, e per di più spesi, quei vent’anni, nell’ambiente ribollente che girava intorno all’Accademia di Belle Arti di Venezia; dall’altro lato quel calderone della quarta sezione della decima Quadriennale, così in linea coi tempi, dove ben altro avrebbe fatto naufragio che i labili segni di talenti ancora in boccio, anzi in germe.
Polizzi era giunto a Venezia nel 1973, un anno prima di dipingere i quadri che sarebbero stati accettati alla rassegna romana. La città lagunare viveva, come tutt’Italia, i momenti di fuoco delle contestazioni e delle rivolte studentesche, le cui schegge roventi raggiungevano la stessa Biennale. L’Accademia, cui non giovava la contiguità con quel tempio dell’arte – anzi quei templi: le Gallerie e la stessa città –, era uno degli elementi risucchiati nel vortice della follia collettiva, il cui bilancio non è stato ancora tratto; ma non era il solo. Il giovane frequentava Carmelo Zotti ed Edmondo Bacci, maestri assai diversi tra loro e da lui stesso, dei quali assimilava una lezione che non sembra aver lasciato tracce, né allora né dopo, ma che a giudicare da quanto l’artista dice di quel tempo, e da come ne parla, dovette giovargli non poco.
Che cosa egli portasse a Venezia dalla sua Sicilia – Scicli dov’era nato, Siracusa dove aveva studiato, i colori, la luce, la grecità – non è dato sapere; e meno ancora che cosa da Venezia riportasse – considerando almeno le scarse opere rimaste. Un Altopiano ibleo dipinto nel 1979, un anno dopo il rientro, dice come a quella data la situazione fosse già tutt’altra, e come nel lustro trascorso tutt’altri pensieri, riferimenti, cure, si fossero impadroniti di lui. Le tele con cui esordì alla Quadriennale restano nel suo percorso un fuor d’opera, nel quale con un’attestazione allora improbabile, e soprattutto col senno di poi, si può cogliere un labile preannuncio, una indefinita promessa. C’era come uno sfalsamento tra la parola detta e il tono adoperato, tra l’irruenza del soggetto rappresentato (la moltitudine urlante, la protesta di massa) e un’invincibile levità di esecuzione; persino tra l’assunto monocromo e la sottigliezza delle sue interne variazioni.
Non è un caso che delle tre opere esposte – Stadio, Folla, Manifestazione – i curatori ripro
ducessero in catalogo quest’ultima. Tutta quella disparata sezione della Quadriennale (La nuova generazione), non meno ed anzi più delle tre che l’avevano preceduta, era improntata al clamore. Non mancavano, nel quadro generale, altre voci, ma non era quello il momento in cui potessero rilevare. La Manifestazione di Polizzi restava forse la meno felice delle sue tre tele, la più esplicita in senso assertivo e protestatario, con i cartelli dei manifestanti divisi fra il taglio compositivo e la didascalia – che era appunto uno dei rari tributi pagati dal giovane siciliano al clima imperante. Anche altre tele, taluna riproposta oggi (Concerto, Stadio), ruotavano sul medesimo tema della folla, ma affioravano in esse, sia pure acerbe, altre lezioni, altri reconditi moti dell’animo: una vaga suggestione informale nel gesto iterato, soprattutto una leggerezza di mano, quasi un pudore, che mutava la folla brulicante in campo fiorito di nebbie e di sogno.
Ma l’indicazione, chi fosse riuscito a coglierla, non era sufficiente a profilare la strada che l’artista avrebbe intrapreso di lì a poco – profilarla agli altri, e neppure a lui stesso. Essa diceva soltanto l’inappagamento, che anzi, a fronte delle certezze di altri (omogenee alla cultura imperante, e non importa su quale dei fronti contrapposti) poteva parere mera incertezza. Sarebbero state le prime cose dipinte in Sicilia dopo il 1978 a mostrare come gli anni trascorsi a Venezia, pure importanti, avessero soltanto rimosso una matrice che ora – fortificata proprio da quell’esperienza di cultura e di vita – riemergeva, e rimuoveva a sua volta ogni acquisita sovrastruttura. Sin dalla più antica delle tele siciliane qui esposte, il citato Altopiano ibleo del 1979, la chiave cromatica appare nota sempre dominante, così costitutiva della visione che ci si chiederebbe come Polizzi avesse potuto – e proprio a Venezia – farne a meno: se uno sguardo meno superficiale non scorgesse che quella monocromia era soltanto, per così dire, colore represso, impulso tenuto a freno da una mal riposta volontà, e che il colore, immerso, quasi soltanto eco di parola non detta – tuttavia affiorava.
A Scicli, da appena qualche anno era tornato a vivere Piero Guccione, la cui pittura Polizzi non scopriva allora, ma che allora dovette ai suoi occhi far corpo con quella natura che invincibilmente lo riconquistava. E a Scicli il giovane artista anche ripensava agli anni trascorsi a Venezia, e mentalmente ripercorrere il tragitto breve tra le aule dell’Accademia e le Gallerie, dove senza frutto apparente egli si era tuttavia nutrito della luce diamantina o solare che di quella cultura è simbolo. Tra gli Iblei, all’altro capo della penisola,
la luce – il colore/luce – trapassava dalla cultura alla natura, ed era, certo, profondamente diversa; ma egli la scopriva profondamente sua, ragione della sua pittura e, in essa, della sua vita.
Il lavoro di Guccione lo coinvolgeva. Più anziano di quasi vent’anni, l’amico gli presentò la prima mostra siciliana, e non si allontanava da considerazioni personali riflettendo sul «tentare di dire “come socialità in atto” ancora della possibile e controversa bellezza del mondo». Nei paesaggi di Polizzi tanto sembrava venire da quelli di Guccione, ma nella tangenza più ancora rilevava, già allora, la differenza. Analogo era spesso il momento narrativo; le colline iblee, i campi segnati dai muretti, il colmo del piano o del colle coronato di cobalto; ma la visione suggeriva diversità di fondo. Nel giovane la materia, specialmente all’inizio, era più tormentata, ma ad essa non veniva che un accanimento squisitamente pittorico; e sempre con dolcezza: dibattuta ma tenera, come in un’eco di canto.
Lo stesso termine di materia è quasi di troppo, bastano la pennellata, il pigmento, che l’artista con istintivo pudore, senza compiacimenti, gestiva con innata maestria. L’altopiano citato, un Paesaggio ibleo o un Paesaggio a Contrada Colombo, degli anni appena seguenti, sono punte alte nel lavoro di allora. Il riferimento a Bonnard può considerarsi nei fatti, e lo motivava acutamente Lorenza Trucchi presentando la personale romana del 1984. In quelle prime tele, bonnardiani sono la tavolozza, il tocco: ma non lo spirito, mancando, come orientamento di fondo, quell’impasto di sensuosa maliconia, di esistenza e di sogno, che sono caratteristica e grandezza del francese. C’era piuttosto una fragranza calda, un tepore d’atmosfera, di trasparenti vapori d’ombra e di sole, un muto, ineffabile, universale brusio che il tessuto frammentato non ostacolava, anzi potenziava nell’amalgama di ocre, di terre, di cinerini.
La punta piu bonnardiana fu toccata, proprio alla mostra del 1984, da un Interno-esterno con figura dipinto l’anno precedente: bonnardiano nella pennellata densa dell’esterno, nella natura morta, nella ritrosa figura. Ma prevaleva «il sereno controllo della propria carica emozionale», come scriveva la Trucchi; «Egli non mostra ansia», aggiungeva la studiosa, «turbamento, impazienza nell’abbreviare o condensare il tempo tra impressione ed espressione»: che era – quella «vue directe sur la nature», come ancora la Trucchi citava da Bonnard – tratto precipuo del Polizzi di allora. Un’assorta stasi contemplativa, nella quale lo stesso fremito della pennellata di qualche anno prima si placava in stesure filtratissime: appagarsi nella felicità di uno sguardo, trovare nel sorriso della natura risposta ad ogni attesa, perdersi nella sua sublimante chiarità.
Eppure, già in quei primi anni Ottanta più di un segno diceva che il giovane non si acquietava nell’estasi. Un quadro di traverso sembrava
protendersi (al di là della tessitura pittorica) alle elaborazioni spaziali di certi interni cézanniani; inopinati accumuli d’ombra svelavano uno stato emotivo certo non deflagrante, e però non pacificato; ancora, le medesime pianure e colline iblee già inondate di inebriante luminosità, naufragavano talora in cupi e ombrosi livori. Alla mostra romana Polizzi aveva esposto anche un quadretto di due anni prima, Tramonto sulla strada, dove tacitamente era messa in crisi proprio quell’assenza di turbamenti – che pure altrove restava dominante. Non che a lui occorresse rovesciare i termini della sua pacata visione; anche la veemenza espressionista, di per sé, non avrebbe determinato modernità; da Bosch, da Grünewald, da Turner – a Nolde, anch’essa è fatto acquisito alla cultura contemporanea, come acquisite sono le ombrosità romantiche poniamo di Fontanesi. Tutti, restando se stessi, hanno padri o parenti.
In quel Tramonto sulla strada il giovane mostrava che le angeliche levità, le incontaminate purezze di toni e di atmosfere dove lo stesso respiro esalava alito celeste, erano suo proprio e felice incanto, ma non riassumevano tutto il suo mondo. La realtà che in certi notturni esaltava l’incontro della luce e del buio, magico, fascinoso, in un Piccolo paesaggio si macerava piuttosto in una sorta di smemorata melma lunare. Ma nel citato piccolo tramonto c’era qualcosa di più. L’ombra annidata tra gli alberi, oltre al mistero pareva racchiudere una vaga, imponderabile minaccia, quasi alludesse, in quella strada, in quell’ombra, in quell’ora, a non sai quale agguato del destino. Nessuna didascalia; ma se il diapason della visione resta lirico, le interne articolazioni sono ampie, e quel quadretto straordinario ne dava esempio precoce e acuto.
Non era appunto che un esempio; un altro (per l’analisi di un percorso che parrebbe, d’acchito, lineare, ma le cui variazioni sono tanto sottili quanto rilevanti) è in un Clair de lune dipinto qualche anno più tardi ed esposto alla FIAC parigina del 1986. L’alone oscuro che tocca o che nasce dal cuore delle cose vi si accentua, e volge a quelle radici dell’inconscio dove si fondono l’incanto e l’incubo. È l’altra faccia dell’arte di Polizzi. Non era la prima volta che il buio della notte celava fantasmi; l’artista non è visionario, ma nel suo animo – lui siciliano – pulsano profonde le note di una cultura atavica, dove attese, paure, destino, prima che termini letterari sono condizione d’esistenza. Se nel Notturno del 1983 le gole d’ombra racchiudevano, fasciata dal velluto della pittura, la voce delle tenebre, i sussurri, una vita brulicante e amica – nel plenilunio di tre anni dopo il freddo abbaglio non è più consolante. Nasce anzi in esso (pure in un fascino di natura che non verrà mai meno) il richiamo di una vita altra, di quei luoghi dello spirito che non trovano risposta nel perimetro dell’esperienza.
L’ombra, la notte, sono di per sè lo spazio del mistero. Sembra naturale che l’artista addensi in esse quel surplus di pressione visionaria che sente nell’animo. In realtà i poli del suo percorso non oscillano tra la chiarità del giorno e i fantasmi dell’oscurità; vanno piuttosto da una natura dove fluiscono pensieri sereni, nella quale dura ininterrotto il dialogo di presenza e assenza, di attualità flagrante e di struggente nostalgia, – a un’altra natura che è luogo non di corrispondenze ma di incubi latenti. Quando nel 1987 egli dipingeva I lampi sulla casa di notte, non lo spingeva l’esplosione della folgore o l’urlo del tuono – ma la tempesta dell’animo. Così due anni più tardi il pastello Visione notturna (esempi fra i tanti) non dice di fuochi d’artificio ma dei fremiti inquieti dello spirito. Anche le chiare vedute del giorno non sono sempre serene. Le caste immagini dei primi anni Ottanta – La casa con la palma del 1981, la Luce sulla piazza del 1982-83, La casa abbandonata del 1983 – rispetto ai lasciti del naturalismo impressionista sono piuttosto mera interiorità. A dispetto del fresco tessuto pittorico, nessun retaggio d’atmosfera, nessuna vibrazione d’aria o di sole. Una sorta di alba incontaminata precede si direbbe la presenza, l’essenza stessa dell’uomo. L’ultima delle tele citate, La casa abbandonata, non conserva traccia di chi, prima di abbandonarla, dovrebbe averla abitata; la sua solitudine è percorsa da presenze astratte – pace fidente, smemorata attesa, silenzio astrale e tuttavia cordiale. Il vago angelismo, così pervaso delle voci e dei sensi della natura, è purezza, non limite. E vi è insieme il preannuncio di una mozione a suo modo simbolista che sarebbe emersa in qualche tela più tarda, la Porta-finestra di luglio del 1995-96, o più ancora Vendicari del 1993-96.
Le ante evanescenti della porta-finestra non sono novità; da tempo Polizzi si cimenta con figure e oggetti corrosi dall’aria per un eccesso, magari, di ”naturalità”, per una tacita violenza della luce o della stessa loro vita, alla quale essi non reggono, per la quale si sfibrano cedendo la corporeità allo spazio che li assorbe – e bilanciano, in codesto loro disfarsi, l’eccesso dei sensi e l’eccesso del mistero. Una figura sul terrazzo dipinta qualche anno fa, tra oggetti concreti, tuttavia appunto si disfaceva – salvo le gambe – svanendo nell’aria, e lasciando che la mente dello spettatore riandasse all’intrigo della nota Scala di Pirandello. Ma in Vendicari il paesaggio si anima di una luce interiore, che raccogliendo fermenti già in atto nelle citate tele dei primi anni Ottanta tuttavia li altera: in misura apparentemente sottile e in realtà sostanziale. La casa abbandonata del 1982 era pervasa di soavità; priva di sapori e sentori umani, spirava tuttavia da essa una pace che giungeva calda al cuore: le ocre, i veli rosati che filtravano nelle terre, nei grigi cerulei, nei bianchi, erano balsamo di umanissima consolazione, di trepida, fragile, nascente felicità. In Vendicari invece la solitudine si è fatta di ghiaccio. La grande insenatura segna una distanza che l’occhio percorre fino all’orizzonte, la calma è solenne, il cielo bianco imbianca vitreo lo specchio d’acqua, e le due alte colonne misurano un tempo immobile e impartecipe. Polizzi non sfiora e forse non ama l’angelismo preraffaellita, la bellezza, la grazia quintessenziale e algida; e però i rarefatti pallori di certi tardi prima luce o primo mattino, il lungo e immoto Paesaggio con muro di cinta e palma, la Stradina sul mare, tutti di questi ultimi anni, sono lontani dal riferimento bonnardiano di un tempo, vuoi per l’estrazione ancora latamente impressionista del francese, vuoi per il suo ravvicinato rapporto con l’esistenziale quotidiano. Si riscontra piuttosto in Polizzi una tensione astraente che tende a una stasi assorta e a suo modo sacrale: muta e fredda, colma di latenti simbolismi in Vendicari, o carezzata da imponderabili tepori nel citato muro di cinta, tanto più
prossimo, nonostante il sole che lo indora, a La valle della pace di John Everett Millais, che non al «muro d’orto» montaliano.
La compresenza di soluzioni ripartite fra un vago retaggio romantico-naturalista ed uno romantico-simbolista (all’interno della riconoscibile e schietta personalità), si evidenzia forse più ancora nelle figure, che progressivamente son venute riassumendo una sorta di astraente, pensoso ed enigmatico distacco dalla realtà. Un Ritratto nudo del 1984 impersona ancora un naturalismo di estrazione forse più francese che italiana. Dipinto in anni di dilaganti turbolenze pseudo-innovative, esso sottolinea non soltanto l’indipendenza del giovane artista quanto l’insopprimibile coerenza alle ragioni profonde del suo dipingere, al suo necessitato modo di essere. Nessuna misura intenzionale spinge quel nudo sensuale e casto fuori dai confini di una non banale intimità, di una gamma di affetti che fanno corpo con la tavolozza tenera, con la luce che raccogliendoli conferisce loro forma e vita. Il solco è quello, ancora, di un naturalismo sobriamente patetico, di lieve e toccante malinconia; ma codesta presa diretta sulla realtà (sulle cose e sui loro sensi riposti) subisce tosto l’interferenza di inquietudini intellettuali: dapprima appoggiate alla forma, ad una raffinatezza stilistica protesa tuttavia a non perdere, anzi a sposare l’immersione nel mondo e nelle sue malie – e quindi a vaghe ma prementi allusioni, attese, enigmi attestati al confine di imponderabili alterità.
Una donna che si protende da un terrazzo, dipinta tra il 1990 e il 1991, suggerisce gia nel titolo (L’affacciarsi – Donna al balcone) una componente metaforica di inedite valenze, e così la coeva Attesa, con la figura appoggiata allo stipite della porta-finestra e rastremata verso l’alto dei suoi pensieri. Romanticismo e Realismo erano stati prodighi di attese, ma l’area cui si affacciano queste nuove figure, forti di una politezza formale tesa fino a rischi di estetismo, sembra cogliere piuttosto sottili, remoti turbamenti preraffaelliti. L’accentuarsi della linea, in un pittore in cui aveva prevalso (e prevale) la densità dell’impasto cromatico; il suo nervoso fluire, diviso tra quanto essa designa, di forma e di sentimenti, e un suo darsi in sé, appagata e quasi rapita dalla sua stessa eleganza, costituiscono un’inclinazione di cultura formale dagli ancora incerti sviluppi. Ma nelle tele citate è appunto una non chiarita inquietudine, di cui substrato sostanziale resta tuttavia una piena di sentimenti, discreti e intensi, che la preziosità formale non incrina più di tanto. I medesimi sentimenti appena l’anno precedente, nei Ragazzi al mare, vivi del mero impatto – eclatante eppure misurato – di colore e di luce, non sfiorano sospetti di formalismo, e ancora nel 1992, nella Figura (Nuovo Prometeo) confinano nel titolo la suggestione mitica, e nei fatti della pittura restituiscono l’immagine al corrusco e superbo notturno, dai cui bagliori la magnifica figura trae, o
sui quali riversa, l’esuberante, classica energia. Ma in La visita del 1993-94 Polizzi non è lontano soltanto – ormai – dal mondo e dalla cultura riassunti nell’omonimo, noto capolavoro di Silvestro Lega, o dall’altra visita dipinta quasi settant’anni più tardi da Fausto Pirandello, entrambe di penetrantissima psicologia, ironica e popolaresca questa, quanto borghese la prima. Lontano quasi altrettanto egli è dal mondo suo proprio, ad esempio dei citati Ragazzi al mare, dove figure e natura, immersione sensuale e sublimazione poetica formano un amalgama di coinvolgente flagranza. I personaggi della visita sono invece astratti e lunari pure nella consueta, preziosa tavolozza; la figura seduta non cela la dimensione allegorica, gli sguardi, l’attesa delle altre, lo stesso paesaggio, suggeriscono messaggi cifrati, arcani – un’astrazione insomma, un distacco che la figura di spalle, sognata anch’essa e irreale, non vince. Se da un lato questo è l’esplicito diapason della tela di cui si parla, dall’altro è sottile rovello sotteso a tutto il lavoro recente. Accentuata nelle tele di figura, la componente di più marcata interiorità, a suo modo simbolica, non è assente anche in altre immagini. Il tavolo bianco e la notte, dell’inizio di questo decennio, è quasi summa di uno spiritualismo sui generis che le opere precedenti non lasciavano sospettare, tra Böcklin e Munch, con la bianca tovaglia come soglia d’inaccostabile sacralità. Così come la versione già citata, anche il Muro di cinta del 1993 raccoglie gli antichi ori, i tepori incantati, ma li riveste ora di astrali silenzi oltremondani; e la superba Cassapanca e melograni del 1995-96 potenzia le punte più acute di una tavolozza già ricca, le magiche luci che dalla contemporaneità volgono ai trascorsi, taciti amori veneziani, le ombre misteriose e cupe che a quegli splendori fanno da notturno riscontro – e ne fa trama silente ma profondamente risonante di raccoglimento mistico. Le lezioni francesi o italiane, la luce, i campi, i cieli di Sicilia un tempo percorsi con amorosa sollecitudine, sui quali vibrava un’emozione dedita e appassionata, si venano oggi – senza perdere la sostanza di quella passione e di quell’emozione – di una smania insaziata che le voci, i colori, gli spazi della natura sembrano non appagare più. Difficilmente Polizzi allenterà il rapporto diretto con una realtà che forma e nutre la sua cultura e il suo umano spessore. Ma proprio in questa fase di piena maturità e di risultati cosi rilevanti, sembra profilarsi per lui, non un rovesciamento, ma un’articolazione delle interne pulsioni, delle inquietudini da sempre sottese ma pungenti ora come mai. L’equilibrio tra l’abbandono e la ricerca, tra il rapito incanto, l’estasi, e la tensione a un mondo altro, di altre sconosciute, conturbanti presenze, occupa il suo animo, e ne indica un percorso che sarà certo insieme nuovo ed antico.
(Fra natura e cultura, presentazione in
catalogo della antologica, Casa dei Carraresi, Treviso 1997)