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Franco Polizzi » Elisa Mandarà: I giorni e le opere
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È un percorso verticale, quello che, dall’età dell’oro, ha precipitato i mortali a un’esistenza marchiata a fuoco dalla durezza del lavoro, quotidiano, necessario. Si succedono i mesi ed è il ciclico alternarsi dei colori del cielo e della terra a dire, nel ritmo stagionale della natura, le forme del cuore del Pittore. Perché la sua vita e le sue mani seguono l’occhio fin dove riesce a guardare dalla finestra ideale da cui si situa; è il profumo del libeccio, sono le nebbie mantecate del primo scirocco a dettare la sintassi del nuovo quadro, quello che per l’artista è sempre il primo e l’ultimo di tutti i tempi. Non si risolve certo nell’anacronistico piegarsi ai tempi naturali, la fatica dolce della pittura di Franco Polizzi, ma serve sapere il suo amore per le cose del pianeta, per avvicinarsi al suo mondo, alla sua cifra di artista sopravvissuto e mantenutosi prodigiosamente indenne dalle involuzioni e dalle degenerazioni che una fetta importante della postmodernità ha comportato all’arte.

Pertanto possiamo invertire il binomio esiodeo, anteponendo – in metafora – i giorni, Hemérai, alle opere, Erga: non ha intenti didascalici il ‘poema’ di Polizzi, ma a una via precisa dell’arte addita il nostro pittore, che affida il progresso e il riscatto del mondo dalla decadenza nel brutto a una concezione dell’arte come espressione totale. Gli è propria questa qualità di lavoro, in quanto artista dotato dell’occhio interiore, che gli consente di sorvolare sulla buccia delle apparenze, di trovare, in un lacerto di cielo come in un grano di paesaggio, la verità essenziale, di tradurla e quindi sublimarla in una visione sintetica e, in molti passi della sua produzione, anche simbolica.

Le opere di Polizzi sono sempre la trasmissione sofferta di un messaggio estetico e morale, l’affermazione di un sentimento artistico e intellettuale alto e forte. Nascono dalle giornate misurate con le ore di luce, nella battaglia strenua e costante ingaggiata col particolare centimetro della tela, coi suoi rapporti con l’infinito, dischiuso dal balcone visuale e spirituale dal quale s’affaccia ogni giorno il suo estro creativo.

La partita della sua pittura egli gioca nei suoi luoghi – il mare, la campagna, l’altopiano, il colle, il terrazzo privato – spazi che nelle composizioni appaiono e poi scompaiono, prima indagati, scavati, poi dilatati in visioni panoramiche che debordano sempre dal finito, fisico e immaginativo.

Forse è proprio nella alchemica mescidanza di naturale fenomenico e ideale – questo per definizione spaziotemporalmente illimitato – che risiede la fascinazione ultima del paesaggio polizziano. Natura eternata, ma pure rappresentata con l’intonaco sbucciato della memoria, natura celebrata nella struggente bellezza dei suoi elementi reali, ma che valica il vero con la cascata incessante di campiture astratte implicite al figurativo polizziano. È sinfonia del finito, che cerca l’infinito.

L’emporio tematico principale naturalistico l’artista allarga in virtù del suo temperamento, che è contemplativo fino alla soglia del mistico, per cui mattino dopo mattino si rinnova l’appetito di lasciarsi sedurre dal sipario spettacolare del creato, con un gesto di sempre, il guardare fuori. L’amore chiama l’invenzione, sublima l’esattezza quadrata del vero come dato retinico; il desiderio abbisogna del velo della trasfigurazione. Lampi di lucida visionarietà corrono le vedute di Polizzi, che offre sulla pagina pittorica sempre generosa esplicazione di aspirazioni ideali: la bellezza, la purezza, l’incorrotto, il piacere come gioco raffinato della mente. Libero dall’impaccio della nuda oggettività, ma con un piede fermo sulla terra dei vivi, sulla biologia dell’essere, sull’astronomia celeste.

Nella babele dei linguaggi coevi (in tante occasioni perché non nominarla ‘giungla’?) Polizzi sceglie il ‘figurativo’. È certo querelle sorpassata, quella che oppone dicotomicamente astrazione e figurazione, ma, per la compenetrazione delle due nell’unicità del dettato polizziano, vale la pena di identificarne le componenti nella sua opera.

C’è sempre, in ogni situazione compositiva, la presenza incantatoria di un oggetto, una forma spesso centrale, che ha la forza emozionale e logica di sospingere il paesaggio ai margini della tela, sottomettendo il gusto panoramico a una visione periferica. Emblematica L’albero azzurro – con la sua incantevole maestosa frontalità dell’elemento elegiaco – per i sensi della quale ci si riporti pure a quanto affermava Kandinskij sul blu, che simbolizza ciò che è di essenza spirituale (Lo spirituale nell’arte, 1911). Ciò in accordo con una nota espressionistica assidua, sebbene – crediamo – preterintenzionale in Polizzi, che accoglie sincreticamente precipitati variegati e sedimentatissimi dagli autori storicizzati, localizzabili soprattutto in area francese e in area italiana, ma con una strizzatina d’occhio al Novecento Americano. Tornano alla mente quei pittori che, nel cursus della loro produzione, hanno fluttuato tra astrazione e figurazione, lungo evoluzioni precise, se solo si pensi a Mondrian, o in suggestivi andirivieni, come nel caso di Richard Diebenkorn. Artisti che hanno superato la fissità dell’etichetta, qualificandosi per il valore unico del loro genio.

Polizzi è totalmente immerso nel colloquio con la tradizione alta. È esempio attivo di come avere assorbito il passato nobile trasformi il presente, di come vada negato valore al proclama di morte della pittura e del disegno figurativi, troppo ricorrente nel secolo scorso. Testimonia che è virtuosismo e non retaggio demodé il coniugare un individuale sperimentalismo formale, che assoggetta sempre il tema alla propria volontà stilistica, con le leggi antiche della vera arte – correttezza di disegno, evidenza plastica della forma, misura.

Lo straordinario eclettismo che da sempre contrassegna il lungo viaggio di Polizzi nella pittura, lo porta a muoversi tra la definizione del reale, baciato nelle sue più fulgide epifanie, e la tentazione al disfacimento della forma. In seno allo stesso quadro l’artista ama narrare e appannare il racconto, moltiplicarne i piani temporali con accurata affabulazione e toccarne i nuclei lirici tramite forme smaterializzate, audacemente abbreviate, reciprocamente isolate o tra loro connesse in un continuum di viluppi serratissimi. Assai eloquente di questa poetica è Nuvole sull’altopiano, dove il corpo denso dei bianchi accoglie nuance morbide di rosa, per vivificare le nubi in anime alate, nel meraviglioso correlativo oggettivo del sogno, del movimento spirituale dei sospiri, dell’essenza stessa della bellezza.

Serba nel petto un amore giovanile per Bonnard, Polizzi, e respira il suo dei silenzi narrativi di Balthus, delle sospensioni silenti di Vermeer, della luce atona della provincia americana catturata da Hopper, dei riverberi che questa pittura ha nella cinematografia di Antonioni e di Wenders. Ma quanto lo vince sono gli occhi dei ritratti di Rembrandt, che chiamano il fruitore alla etimologica compassione, al sentire insieme. È un corredo ponderoso il passato dell’arte, per l’ispirazione polizziana, ma mai ingombrante, mai soverchiante la voce propria. È passione pura, attenta geografia delle proprie stelle fisse, che si traduce in senso di responsabilità per quanto si dice con la parola pittorica, in serietà di studio. Queste le premesse programmatiche e metodologiche da cui discendono, quali calibratissime risultanti, anche quei tratti che potrebbero ricondursi all’estetismo. Si vada agli effetti di chiarore diffuso in Drappo e bouganvillea, in Mattino, in Luci e ombre, realizzati con una sapiente intonazione generale azzurro chiaro, che trasmuta il colore in luminosità, con spostamenti minimi di luce e di ombra, che denunciano quel tanto che di intellettuale è nella distribuzione degli elementi compositivi, nella intelaiatura generale dell’opera.

Si constati, ancora, la felicità delle impaginazioni diagonali, che s’alternano alla magnifica orizzontalità di altri impianti, ove la composizione s’allunga e decresce verso gli ultimi piani, secondo le teorie accademiche del paesaggio, come in Distanze, esaltanti l’infinito memoriale, come nel poeticissimo Costa di Carro, accordato su un infinito tenero, che si coglie in una mano, come in Sampieri, mare bianco. Qui le visioni terse del mare, condotte in un tessuto di trasparenze e sottilissime velature di colore luminoso, hanno valenza catartica per l’artista, che altrove il segno fa vibrare, tormenta – ma per sfinimento e non di violenza – portandolo in un lavorio estremo della materia, conducendo le pennellate in serie continuamente variate, larghe, minime, sferruzzate, poi ancora distese fino alla rarefazione estrema.

Disegno e colore Polizzi ora salda in un unicum, ora scioglie indipendenti, semplificando o tendendo fortemente i rapporti. La forma irretisce il colore, ne fa giocare le specularità, i ritmi, i momenti di pausa. Un nuovo sensualismo è insito nelle cromie di Polizzi, che conduce l’opera alla saturazione, cromatica, materica, luministica. Interrompendo talora, con guizzo repentino, il tutto-pieno, per cui è possibile ritrovarsi, al centro del quadro, una zona di vuoto, un occhio vigile, riflessivo, sensitivo, allusivo a un sostrato di grecità certo vitale nel pittore; è possibile una rilettura del paesaggio polizziano quale mosaico astratto.

È un mitologismo tutto contemporaneo, quello che ha giorno per giorno intessuto l’artista. Il classicismo dello spirito che ne informa l’opera è perturbato dall’ombra dentellata delle cose, delle case, delle pietre; lo spazio esterno e le atmosfere degli interni dicono silenzi ruvidi, interrotti, specie nei Notturni (Notte dei Balcani, Luci nella notte), da presenze mobili d’un moto intimo, inquieto, che esprimono magistralmente il paradosso dell’immobile in movimento. In un battito d’ali, tutto è impenetrabile enigma e tutto torna enfaticamente presente.

Una intensificazione poetica porta linee e colori a trovare eco nell’anima dello spettatore, che vede bellezza e al contempo percepisce la molteplicità dei temi esistenziali che corrono il corpus polizziano, anche in quelle situazioni in apparenza filosoficamente ‘innocue’: nei mille gialli dei suoi campi di grano, nella silloge breve dei lavori in cui compare l’umanità esplicita della figura, gemme di realismo lirico incastonate in contesti evanescenti o costruiti con rigore definitorio, nei portali ipersimbolici come Passaggio, dove il terreno incontra l’altrove, l’insondabile metafisico, affidato al mistero della nota predominante del vuoto nero, iconograficamente memore della Porta-finestra a Collioure di Matisse; e come Senza titolo. In quest’ultimo lavoro si pensi come il capriccio di un seme trasmigrato abbia fatto nascere l’essere vegetale dentro lo spazio di un casolare, fisicamente concluso ma amplificato nelle stanze vaste dell’immaginazione, dove l’antico sa chiudere e raccontare mille storie. È qui che Polizzi ha impiantato questa articolata forma, assegnandole una plasticità scultorea, tormentandone la posa in una gestualità complessa, tortuosa, sfiancandone le membra in una lotta intestina e dolorosa tra la volontà della pianta di evadere, di riversarsi nella regione naturale, cui naturalmente appartiene, e la tentazione alla claustrofilia. L’essere è in limine, sulla soglia del dentro e del fuori, a denunciare i moti dell’animo dell’artista. Un autoritratto, personalissimo, con una lieve citazione del manichino metafisico – ideale, prima che iconografica – che contrassegna lo spazio silente dell’intellettuale, che bilancia la fisicità carnosa della creatura che Polizzi ha portato in scena come poetico alter ego.

L’artista sa che il simbolo è medium conciso, significativo e moderno, per rendere le complessità e le profondità dell’uomo, per tradurne e comunicarne i valori durevoli, per esorcizzare, in un archetipo universalmente valevole, il senso del precario, dell’incerto, lo stato di crisi. Da ciò lo spesseggiare di ictus, nell’opera polizziana, posizionati sul significativo quid, in coerenza con quella attitudine, rara in chi dipinge e che Polizzi possiede, a creare un equilibrio perfetto tra natura e idea, a concretare la pittura come armonia parallela al reale e simultaneamente come oggetto estetico di seduzione in sé. Le corrispondenze interne tra i lavori di quest’ultima stagione creativa sono infinite e non circoscrivibili con le parole. Corrono richiami impliciti, tra le opere, e non solo iconografici. Un fil rouge neoromantico salda, in un legato tonale, Assolo e Coro, il primo quale melodia solista dell’individuo collocato ancora ai margini del suo campo esistenziale, entro il vieux jeu della vita, il secondo a significare, in un abbraccio di simili, la conquista del sublime. Ogni composizione polizziana si presta a essere interpretata in un ventaglio ampio polisemico, di matrice primariamente lirica, ma anche e soprattutto quale dono alla felicità della vista. Se è infatti arduo desimbolizzare il regesto suadente degli oggetti che il pittore trasceglie, non va mai scordato quanto saldo sia il suo rapporto con quel fotogramma di mondo che ha voluto sospendere nel tempo, bloccarlo per sempre nella struggente medietà degli stati d’animo, la nostalgia, la malinconia, la dolcezza dell’attesa rispetto all’emozione piena.

Va tenuta presente la fascinazione massima che il pittore riceve dalla luce, che lo ha portato alla sfida costante con modi disuguali della radiazione solare. Nelle più recenti opere, si può facilmente cogliere la splendida varietà di effets luministici e di atmosfere. Si ammiri l’originale Mare: la composizione è ordinata secondo piani equorei digradanti, che creano il movimento di fasce orizzontali (ma in uno slancio verticale, che otticamente ribalta in altezza la profondità, mentre l’orizzonte è quasi duplicato), che lasciano trasparire più tipi di luce di forza diversa, danzanti nelle mille rifrangenze nell’acqua, nei tocchi animati, nelle intensità dei riflessi ottenuti con la qualità materiale del colore a olio.

Esiodo predicava l’operosità, perché gli uomini potessero vivere secondo giustizia e fuggire la punizione degli dei. Scrisse della funesta Pandora e della Speranza benevola, della favola ineluttabile dello sparviero e dell’usignolo. A terzo millennio inoltrato, età per tanti versi del Ferro, il messaggio primo di Franco Polizzi risiede nella dedizione amorosa all’arte e nella fede nel lavoro, perché è lo studio che dà corpo alla poesia. ,,E??? ??? ,?me???. Le opere conseguono ai giorni operosi. Ma ci sono pomeriggi folgorati dai bagliori dell’agosto mediterraneo, in cui il metronomo della vita deve rallentare. Allora Polizzi s’inventa La sosta, una pausa per l’occhio in una visione serena, un trivio che non ti esige la via da scegliere, un dove raccolto, perché il cuore possa allentare la stretta dei pensieri, inebriarli di quel silenzio indicibile, staccarli dal fogliame delle geometrie terrestri, disperderli in sogno alato, nella chiarità azzurra che profuma d’infinito.