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Franco Polizzi » Duccio Trombadori
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Franco Polizzi è un pittore che ha uno spiccato sentimento della forma, è capace di ordinare lo spazio con pochi tratti di colore, definendo oggetti, aperture d’aria, l’incastro di pieni e di vuoti immersi nella luce, non so perché, vorrei osservare, si fa un eccessivo parlare di un certo suo gusto “bonnardiano”, forse più per l’amore del vissuto, del particolare narrativo, curato con amore dalla pittura, che non per la effettiva analogia di visione: l’una, quella del maestro francese, legata al trattamento minuzioso della tavolozza; l’altra, quella del giovane artista siciliano, legata al disegno d’insieme, alla rilevanza “formale” del colore. Di Pierre Bonnard – che d’altro canto lo stesso Polizzi riconosce come suo autore – ha parlato a suo tempo Lorenza Trucchi e, in queste settimane, anche il critico Vittorio Sgarbi, presentando il catalogo di una importante mostra del pittore alla Galleria Il Gabbiano di Roma. Hanno fatto bene, ma non abbastanza, a mio avviso, per rilevare il tratto peculiare di un autore che, come Polizzi, si esprime nell’Italia sciocca e postmoderna di questi anni, al meglio della nostra tradizione pittorica. Di quale tradizione sto parlando? Quella che, per intenderci, affonda le radici proprio nella maturazione originale del Postimpressionismo (vedi Bonnard) in pieno clima di “richiamo all’ordine” nell’Italia degli anni Venti: non possono sfuggire le evidenti sintonie dei paesaggi siciliani di Polizzi con le calme, squadrate ed elaborate partiture campestri di un certo Carrà, quello che raccontava le spiagge della Versilia e l’Appennino a certe luminosità di impianto con le gradazioni di azzurri, gialli e violetti nei casolari al tramonto dipinti da Ardengo Soffici.

Di questa pittura, matura e serena, del nostro migliore arsenale espressivo, Polizzi è un erede solitario e sicuro: libera nelle sue tele la poesia della forma, la qualità tutta italiana di non giocare alla tensione del frammento, la tendenza a raccogliere nella visione un accento armonico, il filtro di una pacatezza, luminosa, dell’essere. Così, in questa dimensione figurativa che tende al “classico”, Franco Polizzi si rivela forse uno dei più autentici fra i nostri artisti, almeno tra coloro che hanno deciso di fare centro sulla “pittura” e sui mezzi d’espressione di cui essa è il risultato. Qui non c’è letteratura e la tensione espressiva non vuole essere mai forzatura “espressionistica”.

Polizzi traccia il profilo di una rinnovata ansia di «calma e voluttà», ma temperata da toni elegiaci, sottile velo malinconico che si stende sugli oggetti rappresentati: un antico forno siciliano, un tavolo di una casa contadina, l’anta di una finestra, un muro pervaso di buganvillea, la feritoia ombrata di una finestra aperta sullo spazio illuminato della campagna.

É quel sottile velo malinconico che anima la “classicità” della pittura di Polizzi e lo apparenta con una via tipica della nostra tradizione figurativa, i cui migliori esempi, abbiamo visto, anche in questo secolo si sono potuti esprimere. La forma, in questo modo recuperata, non si stempera nella visione polverizzata del caleidoscopio postimpressionista: essa rinasce come misura del sentimento e parola essenziale della poesia. Di qui la necessità, e non la eccentricità, del sottile velo di malinconia, che si presenta sempre – osservava un filosofo famoso e purtroppo oggi poco frequentato – come «il volto stesso della bellezza», di questo volto, che il lavoro di Franco Polizzi perennemente ricerca ed evoca, noi abbiamo avuto segnali in molti dei suoi quadri, perdendoci nelle immagini di Sicilia, nei tetti romani, avvicinandoci ad oggetti dimenticati della vita contadina. Ma ciò che guardiamo non è citazione e, tantomeno, memoria: qui si tratta di attualità poetica che evita il commento e punta direttamente alla sensazione, traducendo immagini che sono nel tempo eppure, per la loro capacità di richiamo estetico, dal tempo ci portano via quasi incantati.

(in «Rinascita», aprile 1988)