Del resto, Dio solo Sto arrivando! se non fosse l’oro, l’oro del perduto e, forse, impossibile paradiso, ciò verso cui egli aveva sempre teso; ovvero di quell’oro la continua, deliberata dilatazione e infiammazione»
(Giovanni Testori, Il requiem profumato di Bonnard).
In realtà sono tre le luci e non mille, perché questo è un trittico. Tre quadri che raccolgono le fasi del giorno, tre ore decisive, e te le piantano nella retina. Però, se ci pensi, quante luci ci stanno in una? Per dire, anche la meno luce di tutte: la notte. Dipende da che numero di stelle vedi, da quanti lampioni sono accesi, da quanti occhi ti immagini lì intorno, da quanti riverberi e chiazze di luna conti sull’acqua etc. Da quanto cielo ti è consentito guardare. Ti è consentito? Già, perché non è affatto detto. I primi uomini conoscevano il cielo notturno altrettanto bene dell’ambiente che avevano intorno di giorno. Gli era familiare come il prato davanti casa, rendo l’idea? E lo conoscevano così perchè lo potevano vedere come gli pareva e piaceva tutte le notti. Semplice. So di un tipo che per scegliere il paese dove scapparsene per sempre prese e aprì una mappa dove era mostrato il grado di inquinamento luminoso del pianeta, cioè di quanta luce artificiale ci sia nelle varie parti del mondo. Scoprì che anche di notte la terra è avvolta, fasciata dal chiarore elettrico, tramortita da un flash permanente, come sotto tortura. Tutta, tranne qualche parte che resta proprio nera. Una in modo speciale, in basso a destra: l’Australia. Ma guarda... È praticamente al buio. Allora quel tipo scelse, partì e non tornò più. La luce, quella vera, quella dell’alba, del giorno e della notte è come la Shahrazad del gran libro orientale: per non morire si inventa sempre qualcosa.
Confessione: questa è la prima volta che lavoro a tu per tu con-per Franco Polizzi. Tuttavia lui e i suoi quadri li conosco da un mucchio di tempo. La sua storia si è sviluppata parallelamente alla mia, ne ha punteggiato inconsapevolmente, anzi fatalmente, le fasi, certi nomi, i luoghi. Gli odi e gli amori. Al loro stato nascente, per di più. Che so: la scoperta, da parte mia, che la pittura figurativa aveva ancora molte cose da dire, da raccontare e che raccoglieva una pleiade di solitari per i quali valeva la pena battersi intellettualmente: cose che hanno coinciso con le sue prime mostre. Mi stavo laureando quando Franco tenne la sua prima personale al “Gabbiano” di Roma nel 1984. Lo presentava Lorenza Trucchi, la quale qualche anno dopo, ancora non mia amica, mi avrebbe chiamato a collaborare al «Giornale» di Indro Montanelli. Nell’87 ne scrisse Enzo Siciliano e nel 1988 lo presentò Vittorio Sgarbi, sempre al “Gabbiano”. Quella mostra la recensì su «Rinascita» Duccio Trombadori. C’era una casa normale davanti a un mare anche normale e a una casa. E inoltre, le palme erano normali, e poi qualche muro, più normale di così... Era il gesto di dipingerli che appariva sorprendente? Ancora non li conoscevo, non Enzo e Vittorio, Nè Duccio, ma avevo già deciso: hanno ragione, la penso come loro.
Poi metteteci un altro fatto, una pura circostanza biografica magari, ma ovviamente capace di innestarsi subito sulla mia vita fantastica, perché dalla fine degli anni ottanta ho cominciato ad andare spesso in Sicilia. Si capisce di che sto parlando? Insomma, e quel non-so-cosa che ammalia, quella fascinazione lì, la percezione di nuovi odori e sapori e colori indimenticabili. Di altre luci. Per esempio: quando sei a Erice, ed è una notte d’estate (se pensi a una stagione da associare alla pittura di Polizzi dici subito estate, d’istinto, o un inizio di primissimo autunno), ti sembra di stare in aereo, dico davvero, guardi dall’alto del monte e ciò che hai limpidamente davanti è una sterminata piana di puntini luminosi, una scia infinita, fittissima, a perdita d’occhio. Polizzi non può essere un pittore qualunque per me. Ed è in ogni caso facile amarne il lavoro per uno che se dovesse portarsi un film, uno solo!, sulla tipica isola deserta (ci saranno un video e un lettore dvd sull’isola? Mah...) si porterebbe Il Gattopardo di Luchino Visconti. Giuro. Che sarà pure un film bellissimo e importantissimo, ma quanti ce ne sono di quel livello lì? Centinaia? Eppure, vado a colpo sicuro: Visconti. Quindi se guardo e commento Polizzi in un certo senso parto avvantaggiato, non so se mi spiego.
Prima che luce e forma si impadronissero dei suoi quadri fino al punto da contenderseli ogni volta in geometrie di lotte chiare e cavallerescamente ordinate, in match, tra questa polvere luminosa, finiti tutti in pareggio (se nutri simultaneamente due passioni devi vederne soccombere una affinché l’altra sopravviva e dica la sua, a meno che non le sospendi in quell’istante preciso in cui sia l’una che l’altra respirano senza sopraffarsi, con discrezione, soffocandosi un poco e quasi da sole), Franco aveva dipinto quadri in bianco e nero, o roba simile, pieni zeppi di virgole e puntini. Gli piaceva, come a un Mark Tobey non californiano ma ombrosamente siciliano, ciò che è minuscolo e numeroso e scuro. Sciami, nugoli, nuvole, folle, matasse. Quando apparve il sole sull’altipiano ibleo e sulle piazze, quando batté forte sui vetri delle finestre di Scicli e trafisse coi propri raggi gli occhi di Franco, ebbe subito memoria e cognizione del fatto che anche la luce più grande e prepotente laggiù si frantuma, esplode al rallentatore, si divide in schegge, diffonde nell’aria pulviscoli, simula la vitalità di microrganismi, pulsa, si irradia, e infine dà un particolare tono soffice, melodico, al brusio della pittura. A ciò per cui Polizzi ha orecchio. Così lui sta sempre davanti a un tramestio silenzioso e luminoso, a una continua modulazione di particelle bianche, a un’intensa animazione di fotoni, allo schiudersi di un’energia, a una sollecitazione della superficie percepita come una specie di fonte. Tu che guardi adesso i suoi quadri ricorda allora la sua origine, la sua connaturata, spontanea propensione all’ordito, alla trama, alla tessitura. Al mosaico.
Ma dove si trova Polizzi? Che è un pittore ma che è anche un luogo. È nato a Scicli, poi ha studiato a Venezia e ha abitato a Roma. Quindi è tornato a Scicli. Se esci da Arcadie e Paradisi non ci torni piu? Nessuno ti ci fa rientrare? Ne era convinto Gesualdo Bufalino. E invece Polizzi c’e rientrato. Magari non proprio nell’Eden, questo no, ma in alcune sue riuscitissime metafore che sono gli orti, le terrazze e i giardini della contea di Modica. E qualsiasi ritorno ha un valore fondamentale nella vita di una persona, così come per l’andamento generale di una civiltà, di una cultura. Vuol dire focalizzazione e conservazione di radici, significa aver compreso ciò che conta davvero nel mondo della dispersione e della consumazione di tutto. Dunque Polizzi, il cui viaggio non è una partenza ma un ritorno, si è assunto il compito: non dire molto, esprimi poco di te, mantieni il riserbo, il segreto, e qualsiasi cosa tu dica ripetila fino a sprigionarne la scintilla nascosta. Sole, pleniluni, campi gialli, mura secche, per quadri e quadri: tutto così. Ogni artista è posseduto da una qualche ossessione. Quelli sono i luoghi di Franco. E «quando dico un luogo» ha scritto Roberto Andò proprio circa questo lembo della Sicilia e, dunque, su Polizzi, «dico quella geometrica disposizione nello spazio di elementi naturali e di interventi umani, architetture, forme, colori. Dico anche luogo il riverbero della luce, la sua speciale moralità, il suo modo speciale di fare giustizia delle cose, di tagliare gli spazi con ombre, di rendere limpido o opaco lo sguardo, con le conseguenze che ne derivano sulle nostre azioni, sulle nostre intenzioni.»
D’altra parte, diciamoci tutto, il meglio di sé gli artisti lo danno se stanno fermi. La loro oscillazione fisica e geografica è di volta in volta indizio di incertezza culturale, di debolezza, di angoscia. Perfino il grande Gauguin, il campione degli artisti viaggiatori, cercò e si mosse a lungo qua e là, e soltanto agli antipodi, dove infine si bloccò, splendette davvero. Immune da ogni impazienza e avidità, forte di una contemplazione che appaga, che sazia, probabilmente Franco, come si disse di Vitaliano Brancati tra gli scrittori, è il pittore piu meridionale d’Italia. Primato insidiatogli da vicino da gente come Giovanni La Cognata, Giuseppe Modica, Giovanni Iudice, Salvatore Paolino, Giuseppe Colombo... (oltrechè intelligenti bisogna essere pittori per venire da queste parti?). Anche se un simile connotato, così estremo, radicale, non significa tanto retorica della solarità quanto consapevolezza intima, segreta, di come il bianco e il nero siano intrecciati tra loro. Un siciliano anche se non sa cos’è il taoismo comprende d’istinto, senza sforzo, che la luce ha in sè il seme dell’ombra e che al centro del buio c’è sempre un punto di luce.
Non è mica difficile: il Sud è laggiù, vai sempre diritto scendendo, e lo trovi. Peccato però che il sud non sia solo un punto cardinale, un luogo geografico, ma anche mentale. E la mente batte la geografia almeno in una cosa: è infinita e multipla. Oddio, anche la Sicilia, se è per questo, è multipla, anzi è un’isola plurale, come scriveva Bufalino. Quindi immagina se ti entra anche nel cervello. Perchè lì tutto si sparge e muta imprevedibilmente, le bussole si inceppano e ciò che pensavi come uno spazio diventa elastico, vario, profondo, duttile: diventa tempo. Magari da esaltare nella sua vita passiva, nella sua bellezza immobile. Come bene scriveva il saggio Brancati, e come, sono arcisicuro, sa anche Polizzi: «Il tempo è talmente soave che si prova sempre il rimorso di non averlo perduto abbastanza: per quanto io stia seduto a non far nulla, ho il sospetto che avrei potuto fare anche di meno.» Geniale no? Polizzi cerca e perde tempo, è come il ritmo del respiro durante un mantra, onda e risacca... onda e risacca... battere e frantumarsi e coagularsi della luce tra cielo e pietra scandendo silenziosamente qualcosa che è simile a un’esistenza in stand by, puro dipanarsi, illuminarsi, sentire... Si tratta di attimi interi, e dilatati per quel che si può, non masticati e spezzettati da ciò che quotidianamente ti ripetono sia la vita.
E mica cito Brancati così tanto per fare. A lui, al suo nome – che preferirono a quello di Elio Vittorini – Piero Guccione e Franco Sarnari dedicarono nel 1980 la prima cellula di quel movimento, di quella situazione che si chiama Gruppo di Scicli, di cui Franco, anche con Sonia Alvarez e Carmelo Candiano, fece subito parte. Rispondendo alla domanda di Luca Liguori su quali fossero e se esistessero ancora isole di sola pittura, zone franche, Renato Guttuso, che era buon pittore e sofisticatissimo critico, disse: «Sì, queste isole ci sono. Soltanto che l’organizzazione della struttura della vita artistica italiana è stata talmente inquinata e corrotta che è difficile individuarle, conoscerle. Io che sono uno che ama queste cose, qualcuna di queste “isole” la conosco, e questo fatto mi induce a una profonda malinconia perché vedo che sono momenti di vita eroica assolutamente senza sbocco perché la situazione attuale non lo consente. Ti faccio un esempio: a Scicli, che é un paesino della Sicilia dove sono andati a vivere dei giovani artisti, Guccione e Sarnari, c’è una piccola scuola di pittori di cui l’Italia non sa nulla, di cui le Biennali non sanno niente, non vogliono saperne o non gliene importa niente di saperlo.» Anche tu, oggi: pensa simultaneamente alla Biennale e a Scicli: mondi. Uno grande e pieno. L’altro piccolo e vuoto. Pianeti le cui orbite non si sovrappongono mai, perché girano in galassie, universi differenti. Là dove trionfano, ultimo grido del parco giochi lagunare, le lampade led dell’islandese Eliasson, a campionamento di luci, tramonti, orizzonti, nebbie, interi cicli meteorologici (magari puoi anche cambiare strumenti e mezzi ma se sei ancora un uomo e non un mutante resti aggrappato sempre a quelle cose lì: sole e cielo), sono banditi Guccione e Polizzi e i loro “momenti di vita eroica” e qualsiasi ipotetico Sicilian Set, quindi nulla mai nessuno saprà delle pietre di Scicli, e lo posso anche capire sapete? perché si tratta pur sempre di pietre così povere, impresentabili, vere, cioè con un loro peso, una loro irripetibile consistenza naturale e storica e poetica, non standardizzate né omologate né clonate, e molto, molto “artisticamente scorrette”...
Ora: l’Italia è il sud d’Europa, la Sicilia è il sud d’Italia, la contrada iblea è il sud della Sicilia. Più in là non vai. Dalle parti di Scicli se ne muore senza strazio l’Europa, nel senso che già diventa qualcos’altro, si trasforma in una terra di nessuno, una terra di mezzo, una pausa, un quasi-nulla, un confine senza nome, un’attesa tra la sabbia... Africa, o chissà quali Orienti... Lo dico a Franco, e lui: «Sai, hai ragione, dalla mia terrazza io vedo Malta, e una notte ho fatto un sogno, ho sognato che tutto il mare, il Mediterraneo che ho davanti era diventato un deserto...»
Se hanno viaggiato, se sono andati verso qualche altrove, gli artisti lo hanno soprattutto fatto verso Sud. Altrimenti verso Oriente. Come se partisse la loro ombra, essi cercavano più luce, magnifico, incorporeo stop cui arrendersi per sempre. Una volta lo scrittore americano Paul Auster ha commentato Jean-Paul Riopelle e le sue luci del Nord con termini che avrebbe potuto tranquillamente usare per Polizzi e le luci del Sud: «Nessun luogo. Come se si trattasse di un inizio. Perché anche qui, dove la terra sfugge a ogni testimone, emergerà un paesaggio. Come dire che non esiste mai nulla laddove giunge un uomo, persino nel luogo dove tutto é scomparso. Perché lui non può stare in nessun luogo fino a quando non è in nessun luogo, e solo nel momento in cui incomincerà a perdere i punti di orientamento scoprirà dove si trova. Perciò lui procede fino al limite della terra, pur rimanendo fermo nel cuore della vita. E se sta in questo posto, é solo in virtù del desiderio di essere qui, al limite di se stesso, come se quel limite fosse il nucleo di un altro, più segreto, inizio del mondo. Incontrerà se stesso nella propria scomparsa, e in questa assenza scoprirà la terra – anche al limite della terra.» In un’altra cosa il Nord e il Sud, ai loro estremi intendo, si somigliano: e lì che trovi gente capace di stare sola. Di rendere visibile, di proteggere e perfino di officiare la propria solitudine. La ricerca di un artista è in profondità, non in estensione. Perdersi è per lui la condizione per trovarsi. Allora la sua «casa è il centro del mondo, questa casa é il centro di tutto» ha certificato Marco Goldin conficcando infine in una posizione saldamente fortificata l’arte di Polizzi. Freccia rossa: tu sei qui.
Il tema in questione é ancora quello di come si miscelano e interagiscono tra loro le seduzioni della cultura ricevuta – i quadri visti e le letture fatte – e il richiamo di una parte di mondo che il pittore, animale generalmente stanziale, abitudinario, sente come una propria verità necessaria, ineliminabile. Ogni paesaggio è un autoritratto condotto sotto mentite spoglie. È il risultato di un incontro, la confessione di una reciproca dipendenza: la terra e il pittore. Mi chiedo se qui assumano un ruolo oppure no le svelte, snelle figure che stanno appese alla volta affrescata della chiesa di San Bartolomeo a Scicli, se c’entrino con le poche che ha dipinto Polizzi, o se dal mascherone che grida grottescamente di sotto un balcone di Palazzo Beneventano promanino oltreché irrequietezze barocche e furore contronatura anche le ansie sottopelle di Franco, una sua sicilianissima propensione al sogno, a una fantasticheria già al suo nascere malinconicamente intralciata, insidiata dalla propria inesaudibilità, da un desiderio vano perché subito giudicato impossibile, e per questo motivo meno violento e più mite, più dolce...
Ho chiacchierato un po’ con lui e non gli ho chiesto quelle cose, le tengo per me, ma altre. E lui ha risposto così (lascio perdere ciò che ho detto io, tanto si capisce lo stesso): «Ho subito pensato all’idea di un trittico che si concentrasse sulle fasi del giorno, la luce dell’alba, quella meridiana, e un notturno, un tema, quest’ultimo, che amo molto... Luce e lutto, perche sai, per noi siciliani è così... io poi mi sveglio prestissimo la mattina e so di cosa parlo, mi piace molto quel momento in cui in basso, sulla terra e ancora quasi nero, c’e questa oscurità fonda e più in alto un chiarore pazzesco, accecante... Mi dici che c’è questo spazio vuoto? Inutile? È vero, in fondo la palma è solo una mezza palma e la casa è tagliata, proprio perché mi serviva questa specie di spazio neutro, di corridoio mentale libero... Rothko? Dici che l’alba ti fa pensare a Rothko? Ebbene, guarda, assolutamente sì... quell’artista è stato ed è ancora una mia grande cotta... Insieme a Piero della Francesca... perchè devi sapere che io tutto sommato tendo verso l’astratto... tendo, ovviamente... la pura astrazione non mi convince, può facilmente scadere nella decorazione... ho bisogno della cosa vista direttamente, ho bisogno di questa verità oggettiva... Al tempo stesso combatto contro il pericolo che sento premere sul mio modo di dipingere, come su quello di qualsiasi altro pittore figurativo, la minaccia di una natura assediante, troppo piena, l’errore di raccontarla e di non evocarla... Poi sai, ho avuto un’infanzia felice qui a Scicli, un’infanzia in totale sintonia con il territorio, con il paesaggio... Ecco, è contro questo eccesso di naturalismo che Rothko, con le sue superfici dilatate, piatte, pure, funziona benissimo... come un antidoto... così come Richard Diebenkorn, un altro pittore che amo molto e magari non si direbbe... Non posso dipingere idee... Ho bisogno di avere davanti a me l’immagine, tutta, intera, sarà una mia insicurezza non so... però poi sento la necessità di annientarla... è un percorso doloroso sai? che alla fine, dopo che ho lavorato a lungo la superficie, mi porta a una certa flagranza del quadro... dire e non dire... negare, cancellare e così trovare clima, spazio, temperatura, materia... Sì, è come dici, il vuoto può essere una pienezza...» Ci ripenso dopo a quella storia del corridoio, perché Franco ha detto proprio così, corridoio mentale, ma stento a ritrovarlo in questo trittico, perchè un corridoio è una cosa piuttosto definita, stretta, chiusa, che va da qui a lì... Poi però capisco, voleva dire una corsia preferenziale per lo sguardo senza troppa roba in mezzo, uno spazio che come i corridoi ti porta da qualche parte, che sfocia da qualche parte... Aggiungerebbe Yves Bonnefoy: «La pittura di paesaggio non è, come si è creduto, una finestra, ma una soglia; è la strada aperta davanti a noi, lungo la quale possiamo spingerci lontano, attraverso la quale dobbiamo tornare all’origine perduta.» Una soglia. Scritto da dio.
«Ci sono degli artisti che vogliono dire tutto ma io mi rendo conto che è più oculato dire poco.» Regalo questa citazione di Rothko a Franco, alla sua ricerca sulla quantità e sulla qualità della luce, al suo desiderio di spoliazione e di semplicità. Gli piacerà. Così come gli piacerà di sicuro, e conoscerà e ricorderà nell’atto di sfaldare in un’evocazione di scirocco l’alto grado di precisione strutturale di qualche suo quadro, quest’altra frase, detta da Edward Hopper: «Tutto ciò che voglio è dipingere la luce sull’angolo di un muro, sopra un tetto.» A un vero pittore basta un nonnulla. Può esserne felice fino a morirne: una piccola ala di muro giallo in un celebre quadro di Vermeer, allo zenit della bellezza, e il Bergotte di Proust stramazza. Muri. Thomas Jones (mura screpolate e pittoresche) e Valenciennes (mura neoclassiche) e Maurice Utrillo (mura esistenziali e romanzesche) hanno condiviso la stessa passione per architetture quintessenziali, elementari piani d’appoggio per mani, anime, sguardi. Lì si appoggia anche il sole, figurarsi noi. Polizzi ha sentito un sacco di volte come il proprio destino potesse aderire a una parte di muro, e come non se ne sarebbe distaccato mai più. Una sensazione così intensamente fisica e spirituale te la trasmette, tra le arti, solo la pittura. E ogni volta è una sensazione che, nella sua perpetuazione, si rinnova: dipingere è vedere le cose per la prima volta; è vederle da soli, come se si fosse gli unici esseri al mondo; è vedere il mondo com’è quando nessuno lo guarda; è vedere come se non si esistesse nemmeno, a voler essere esatti.
Domanda: che ne è dei grandi temi qui dentro? Dove sono finiti? Risposta: abbiamo bisogno di uno sguardo sulle cose che sia così puro, elementare. La pittura di Polizzi ristabilisce il contatto con noi stessi quando siamo nell’atto di contemplare. Trasmette il senso di una ricerca molto interiore e quello di una conciliazione. È da un pezzo che mi attendo illuminazioni. Chi ne possiede la strada me la indichi. L’ho detto ai quattro venti ma ho ricevuto risposte flebili, il più delle volte indecifrabili. Dai pittori no. Per quel che possono tracciano proprio questo itinerario di purezza, di semplificazione. Le loro opere sono spesso utili camere di decompressione e ho il sospetto che loro stessi siano perfettamente consapevoli dell’effetto positivo che producono sullo spettatore.
I colori di Polizzi sono l’azzurro, il ceruleo, il biondo scuro. La sua terra (e la sua pittura) è governata dal miele non meno che la parte etnea dal rigoglio lavico, che vuol dire verde cupo e un grigio quasi nero. Gia nel ’700 Jean Houel era colpito dal fatto che delle tombe siciliane si facessero alveari: «Quando un poeta antico abbisognava di un paragone di cosa dolcissima, squisita e profumata, non sapeva trarre fuori di meglio che il miele distillato dalle sicule api iblee, in quella regione ove il timo, fiore prediletto all’ape, l’origano, il ginepro e le altre piante aromatiche crescono spontanee e abbondanti.» Potrei dire che Franco non tanto vede le cose ma le cose che cambiano perché cambia la luce che le determina, il tipo di miele che le ricopre. Come se in questa mansueta ripetitività si rivelasse lo svolgersi della pura impermanenza del mondo. Tutto è passaggio, ed Eraclito non si bagnò due volte nello stesso fiume. Per definire il trittico di Polizzi l’immagine più efficace potrebbe essere quella di una fiamma che passi da uno stoppino a un altro quando la candela sia ormai mezzo disciolta... Morte e reincarnazione. Ciclo: tre dipinti ma anche la figura di un cerchio: arrivato al terzo ricominci. E senza sacrificare nessuno: gli Atzechi spargevano sangue in onore del sole, terrorizzati all’idea che non risorgesse un qualche mattino. Noi facciamo quadri.
Uccidiamo il chiaro di luna? Trucidiamo quel che resta del giorno? Macché. In un suo notturno Polizzi, il quale raramente ha ammesso che il proprio bisogno di comunicazione debba per forza includere presenze umane (gli esseri c’erano, forse torneranno più tardi, ed è in questo intermezzo che Franco cerca ogni volta il suo spazio), ha coinvolto un gruppo di personaggi affinchè partecipassero, come muti, sconosciuti testimoni, a una specie di miracolo. Quelli erano lì, e noi siamo qui, per vedere ancora, avrebbe detto Italo Calvino, «luci accadute milioni di anni fa.» A parte la luna. Alla sua luce basta poco più che un battito di ciglia.
(Le mille e una luce, presentazione in catalogo della mostra Trittico, a cura di “Linea d’ombra”, Treviso, Piccolo Miglio in Castello, Brescia, 2005)